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Anna Ardu

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Italian

ABSTRACT

The paper shows the results of the underwater archaeological investigation of the bay of Su Pallosu in central-western Sardinia, carried out between 2012 and 2013 within the Capo Mannu Project. The main aim of the survey was to explore the archaeological and historical dynamics of this habour area, known since the Roman Empire as 'Korakodes limen' or 'Korakodes portus', and its relationships with the settlement patterns of the surrounding region of northern Sinis. In the same years, a series of excavations were undertaken on the western beach of the bay, revealing the existence of a Recent and Final Bronze Age votive deposit of ceramics (Castangia 2010; 2013). The underwater survey confirmed the presence of seafaring activities during the Bronze Age, but also shed light on the other phases of the harbour's life, spanning from the 2nd millennium BC to the 20th century AD.

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INTRODUZIONE
 
La cala di Su Pallosu, oggetto di questo studio, è localizzata nel territorio del comune di San Vero Milis (Oristano), lungo la costa della Sardegna centro-occidentale, più precisamente nel Sinis settentrionale, dove l’imponente Capo Mannu si erge sul mare con alte falesie ed è unito alla terraferma da cordoni sabbiosi che delimitano le tre zone umide di Sa Salina Manna, Sa Marigosa e Sa Mesa Longa (Fig. 1). L’azione dei venti del IV quadrante, in particolare del Maestrale, con i conseguenti moti ondosi, ha determinato la formazione di due tomboli sabbiosi (le spiagge di Putzu Idu e di Su Pallosu) e la trasformazione del Capo Mannu in penisola (Pecorini et al. 1974). 
 
 
Fig. 1 - 1) Capo Mannu, 2) Sa Mesa Longa, 3) Sa Marigosa, 4) Sa Salina Manna, 5) Cala di Su Pallosu.
 
Da un punto di vista geomorfologico, è degno di nota come almeno fino alla fase medioevale la linea di riva fosse più avanzata rispetto a quella attuale, non essendo ancora attivi i fenomeni erosivi che avrebbero plasmato l’attuale conformazione (Carboni e Lecca 1995).
Grazie ai progressi negli studi e ad una maggiore quantità di prove materiali, oggi nell’ampia rada di Su Pallosu può essere ubicato con relativa sicurezza l’antico porto chiamato Korakodes limen o Korakodes portus, che il geografo Claudio Tolomeo colloca tra la foce del fiume Temo e Tharros - (Fig. 2) - PTOL. III, 3, 2: 30° 20' di longitudine e 37° 35' di latitudine (Tore e Stiglitz 1987: 643; Stiglitz 2006: 65; Zucca 2006: 14) . 
 
 
Fig 2 - Fotografia aerea della cala di Su Pallosu - in primo piano l'isola di Sa Tonnara (foto P. Bartoloni).
 
In questo tratto di costa, nei mesi di settembre e ottobre del 2012 e 2013, sono iniziate sotto la responsabilità di chi scrive delle prospezioni subacquee nell’ambito del Capo Mannu Project, un progetto a carattere internazionale con l'obbiettivo di contribuire alla valorizzazione archeologica e culturale del territorio comunale di San Vero Milis (OR) tramite ricognizioni sistematiche di superficie, attività di scavo, prospezioni geofisiche, ricognizioni subacquee e raccolta di campioni per analisi paleo ambientale e geomorfologica (www.capomannuproject.it). Dal 2013 le attività nell’area di Su Pallosu si svolgono nell’ambito della concessione di scavo ministeriale, ai sensi del Codice dei Beni Culturali, affidata al Comune di San Vero Milis con la direzione scientifica di Giandaniele Castangia e di Alfonso Stiglitz.
 
Le attività svolte durante le prospezioni subacquee hanno interessato l’identificazione e la documentazione di eventuali relitti e di materiali mobili presenti sul fondale. La metodologia di prospezione si è basata sui più moderni parametri della ricerca archeologica subacquea, che comprendono: 1) raccolta e censimento dei dati pregressi già noti (attraverso pubblicazioni e dati cartografici, fotografici e areofotografici); 2) ricognizioni sistematiche autoptiche; 3) localizzazione dei siti tramite uso di strumentazione GPS; 4) elaborazione di schede descrittive delle evidenze identificate; 5) redazione finale di una cartografia georeferenziata del rischio/potenziale archeologico presente nella zona indagata.
Nel corso delle immersioni, condotte a una profondità media compresa tra 6-7 metri, sono state eseguite ricognizioni sistematiche con una squadra di archeologi e tecnici subacquei - gli archeologi Gustavo Deligia e Marco Solinas e lo studente Sandro Uras, il tecnico della Soprintendenza Ignazio Sanna e Silvia Fanni.
 
L’area d’indagine è stata suddivisa in blocchi e transetti ed è stata indagata mediante prospezione diretta con ricognitori posti a distanze variabili, a seconda della profondità e della visibilità - che è risultata mediamente buona per la trasparenza dell’acqua e discreta per la vegetazione. I reperti isolati o i gruppi di reperti sono stati segnalati mediante pedagni; i rinvenimenti più significativi o le aree di maggiore concentrazione sono state posizionate con GPS salvando le coordinate di numerosi punti di accumulo di materiale archeologico.
I frammenti individuati nel corso del survey sono stati in seguito documentati fotograficamente e in parte portati in superficie, lasciando sul posto quei reperti che avrebbero richiesto un intervento di scavo e altri meno significativi e non diagnostici. I materiali recuperati, alla fine della campagna, sono stati trasportati nei magazzini del Museo Civico di San Vero Milis.
 
La zona che ha fornito i maggiori risultati d’interesse archeologico è quella posta immediatamente a NE dell’isolotto di Sa Tonnara, in particolare in corrispondenza della fascia batimetrica compresa tra i 5 e i 10 metri, dove la barriera rocciosa e le matte di posidonia hanno imprigionato i materiali scivolati lungo il fondale. La presenza abbondante di materiali ceramici in quest'area, frammentati e disposti disorganicamente sul fondale, potrebbe essere stata causata - oltre che dall’azione dei marosi e delle correnti - anche dal continuo intervento umano.
 
 
DALLA FREQUENTAZIONE NURAGICA A QUELLA ARCAICA (XIV-VI sec. a. C)
 
La cala di Su Pallosu può essere ritenuta il miglior approdo naturale del Sinis settentrionale. Nonostante una differente morfologia rispetto a quella attuale, doveva esserlo anche durante l'Età del Bronzo, in quanto ubicato in una posizione favorevole per il cabotaggio e posto sulle più importanti rotte commerciali da e verso la Penisola Iberica.
 
Le prime testimonianze archeologiche documentate lungo la costa risalgono alla fase del Bronzo recente (1350-1150 a. C.): in particolare nella spiaggia di Su Pallosu è stato recentemente investigato un deposito, forse di carattere votivo, caratterizzato da una grande quantità di frammenti nuragici, pertinenti a tegami, scodelle, coppe, brocche, vasi quadriansati, olle, coperchi e vasi miniaturistici (Castangia 2009, 2011 e 2012). Il contesto era probabilmente situato in origine ad una maggiore distanza dal mare rispetto all’attuale posizione (Castangia 2013), ipotesi rafforzata dal ritrovamento nel fondale prospiciente, durante le prospezioni subacquee, di diversi frammenti ceramici riferibili agli stessi tipi documentati nel deposito. E’ probabile che in questo sito, anche a partire dal Bronzo recente, si praticassero attività legate all’approvvigionamento del pescato e la navigazione di cabotaggio. La testimonianza più interessante a riguardo è attestata dal ritrovamento di un’ancora litica in basalto a un solo foro rinvenuta a nord-est dell’isolotto di Sa Tonnara (Fig. 3).
 
 
Fig. 3 - Su Pallosu: ancora litica ad un solo foro (foto A. Ardu).
 
Su Pallosu, inoltre, è il sito antropizzato più vicino all’isola di Mal di Ventre, che dista circa 3,5 miglia nautiche (Casu 2004). La cala era importantissima per la traversata da e per l’isola, dove è attestata la presenza di un nuraghe complesso del tipo “a tancato”, edificato in blocchi granitici subquadrati, che ha restituito frammenti di ceramica d’impasto riferibili ad un periodo che va dal Bronzo Recente (1350-1150 a.C) al Bronzo Finale (1150-900 a. C.) (Sebis 1998). 
 
Le testimonianze databili al primo Ferro (930-730 a. C.) nella cala di Su Pallosu sono costituite dal rinvenimento di un deposito di coppe su piede, con decorazioni geometriche a cerchielli e linee incise (Fig. 4): il carattere cultuale dei materiali emerge da alcuni particolari formali e stilistici, che le rendono tali oggetti assimilabili a modellini di nuraghe (Falchi 2006).
 
 
 
Fig. 4 - Su Pallosu: coppe ad alto piede (Antiquarium Arborense - Oristano).
 
Ad una fase leggermente più recente - VIII sec. a.C. - è riferibile una brocca di tipo askoide, con orlo trilobato invertito, ansa verticale a bastoncello, corpo globulare (Fig. 5), rivenuta sempre nell’area di Su Pallosu e attualmente esposta nei locali dell’Antiquarium Arborense di Oristano (Ardu et al. 2014: 189). 
 
 
 
 
Fig. 5 - Su Pallosu: brocca con orlo trilobato invertito (Antiquarium Arborense - Oristano).
 
Nella spiaggia di Sa Rocca Tunda, immediatamente a est della cala, un monumento di difficile interpretazione, composto da un basamento di pietre di piccola pezzatura e provvisto di un pozzetto con ghiera profondo circa un metro, è stato investigato al principio degli anni '80 (Fig. 6; Stiglitz 1984). I materiali ceramici provenienti dallo scavo sono ascrivibili perlopiù alla prima fase dell’Età del Ferro (X-IX sec. a. C) (Ardu et al. 2014: 189; Stiglitz 1984). 
 
 
 
Fig. 6 - Sa Rocca Tunda: edificio con pozzetto (foto A. Stiglitz).

In età arcaica il Κorakodes limen diventa un sito importante nelle dinamiche complesse e articolate della situazione politico-economica del Mediterraneo occidentale: un panorama ricco e variegato, con una fitta rete di relazioni che si dipanano nei secoli VII e VI a. C., che vede la partecipazione di un numero crescente d’interlocutori - Sardi, Fenici orientali e occidentali, delle colonie sarde o Cartaginesi, Etruschi ceretani, vulcenti, tarquiniesi e Greci focesi, corinzi, delle metropoli e delle colonie, massalioti, pitecusani e sicelioti (Bernardini 2009).
 
Il fenomeno della diffusione dei materiali d’importazione arcaici, rinvenuti durante le prospezioni subacquee, si concentra tra il VII e il VI sec. a. C, sebbene potesse essere iniziato anche alla fine dell’VIII, e significò per quest’area la prima vera apertura ai traffici mediterranei. Il primo frammento recuperato è l’ansa di un’anfora ascrivibile ad ambito culturale fenicio (Fig. 7), che trova confronti con il tipo T2.1.1.2 (Ramon Torres 2007: 110, fig. 11, n. 57), un tipo prodotto nell’area di Cartagine: essa si caratterizza per le anse di piccole dimensioni, applicate subito dopo la spalla, l’orlo svasato verso l’alto, contenitore privo di collo e di piede (Finocchi 2000). 
 
 
Fig. 7 - Su Pallosu: ansa di anfora fenicia (foto A. Ardu).
 
Il frammento presenta un impasto di argilla nocciola tendente al rosso verso la superficie esterna, e sono osservabili inclusi di calcite e quarzo e la presenza di un ingobbio chiaro. L’areale geografico di distribuzione raggiunge buona parte della Penisola Iberica nel suo versante mediterraneo, ma anche le regioni atlantiche (Ramon Torres 1995): questo tipo di contenitore circolava diffusamente tra la metà del VII e i primi anni del VI secolo a.C, e testimonia pertanto una presenza finora inedita per il territorio in esame.
 
Tra i rinvenimenti subacquei in prossimità dell’isolotto di Sa Tonnara vi è anche l’ansa di una cosiddetta 'olpe a sacco' o 'sack-shaped', una tipologia ceramica di produzione fenicia, diffusa nel Mediterraneo centrale, in un areale di distribuzione abbastanza circoscritto (Fig. 8). Rinvenimenti di questa forma potoria sono stati effettuati a Sarafand, Utica, Mozia e anche in alcune sepolture di Populonia (Culican 1970). Si tratta di una produzione poco documentata in madrepatria, ma ben attestata in Sardegna e databile all’ultimo quarto del VII sec. a.C. (Botto 2002: 225-247, 236).
  
Fig. 8 - Su Pallosu: ansa di olpe a sacco (foto A. Ardu).
 
Un'altro reperto estremamente interessante, non proveniente dalle raccolte del Capo Mannu Project ma rinvenuta nei fondali prospicienti Capo Mannu e custodita nei magazzini del museo archeologico di San Vero Milis, è un’anfora etrusca appartenente alla tipologia Py 3B (PY-PY 1974: 168 ss, Fig. 44; Stiglitz 2006: 69). L’anfora si presenta ricca di concrezioni marine e manca del puntale e di un’ansa; il corpo ceramico è di color nocciola, il profilo è affusolato, la spalla convessa e il corpo a profilo concavo, le anse sono a bastone impostate sulla spalla e sul punto di massima espansione del corpo - altezza residua cm 40,5, diametro esterno all’orlo cm 13,5, altezza del collo cm 2,5, distanza ansa dalla spalla cm 3,7, circonferenza massima del corpo cm 65, lunghezza residua cm 39 - Fig. 9 ).
 
      
Fig. 9 - Capo Mannu: anfora etrusca Py 3b (foto A. Ardu).
 
Secondo studiosi francesi, in seguito ad analisi archeometriche mirate, le anfore Py 3 con questa tipologia d’impasto sono da intendere come provenienti in via ipotetica dall’agro settentrionale di Vulci, ed in particolare da Doganella (Hérubel e Gailledrat 2006). Quest’area di produzione, infatti, avrebbe veicolato il surplus dell’area sul commercio marittimo a lunga distanza (Perkins e Walker 1990).
 
In questo contesto di dati, il versante cronologico indicato offre un notevole incremento d’importazioni, soprattutto di ambito etrusco, che contribuiscono alla solidità delle sequenze di sviluppo delle ceramiche fenicie: buccheri e ceramica etrusco-corinzia rappresentano, infatti, gli elementi costanti di un regolare flusso commerciale che interessa i centri fenici di Sardegna (Botto 2007) e che si integra con una quantità, decisamente minore, di prodotti greci provenienti da Corinto e dalla Grecia dell’Est, veicolati attraverso l’Etruria probabilmente dagli stessi mercanti fenici attivi sulle coste tirreniche (Tronchetti 1975). 
 
Un altro ritrovamento importante avvenuto nei fondali prospicienti la cala di Su Pallosu durante le prospezioni subacquee riguarda un’anfora arcaica, di cui è stato rinvenuto il frammento di una parte del corpo e del piede (Fig. 10): si tratta di un’anfora corinzia B, della capienza di circa 20 litri, caratterizzata da un impasto di argilla gialla, giallo-verdastra o beige rosata con piccoli inclusi di quarzo e chert. Particolari caratteristici della forma sono le anse larghe con la cima arcuata e breve, il bordo largo e svasato e una contrazione del collo verso la spalla.
 
 
Fig. 10 - Su Pallosu: anfora ionica Corinzia B (foto A. Ardu).
 
Il tipo più arcaico compare nel VI secolo a. C. a Corinto (Thorne Campbell 1938: 604-606, nn. 190-200, figg. 27-28), nell'Agorà' di Atene (Grace 1961, fig. 35) e nello strato inferiore della città antica di Emporion (Almagro 1953: 399, n. 24). Secondo Koehler la forma delle anfore 'ioniche' s’ispira a questo tipo di contenitori corinzi, la cui produzione inizierebbe nell’ultimo quarto del VI sec. a. C, sia a Corinto sia nella colonia Corcira (1981). Gras ha proposto di rialzare la data d’inizio della produzione corinzio-corcirese di tipo B, in considerazione del rinvenimento di un frammento di questo tipo in uno strato databile al secondo quarto del VI sec. a. C nell’oppidum di La Liquière, nella Francia meridionale (Gras 1987). Inoltre, è da segnalare il rinvenimento di un’anfora corinzia di tipo B in un contesto databile alla metà del VI sec a Pithecusa (Gialanella 1996). Per quanto riguarda i centri di produzione, i recenti ritrovamenti di Corfù hanno evidenziato l’esistenza nella città di un quartiere artigianale in cui venivano prodotte queste anfore (Preka Alexandri 1992); questo dato ha riaperto il dossier relativo alla kerkyraikous amporeis, proponendo con forza l’ipotesi di Corcira come principale se non unico centro di produzione del gruppo B (Kourkoumelis Rodostamos 1988).
 
Non molto distante dal sito di Su Pallosu è localizzato l’insediamento di S’Urachi-Su Padrigheddu, dove è situato uno dei più grandi nuraghi della Sardegna, in posizione estremamente vantaggiosa per l’acquisizione di differenti tipi di risorse e della loro distribuzione (Stiglitz 2012b; Stiglitz et al. 2015). La cultura materiale di questo sito, emersa nel corso di diverse campagne di scavo, ha permesso di ricostruire la vita di una comunità con spiccati chiari caratteri multietnici (Stiglitz 2012; Roppa 2012; Roppa et al. 2013). La coabitazione tra indigeni ed elementi di etnia fenicia, ben integrati nella comunità di S’Urachi, fu probabilmente la chiave del successo delle attività produttive di questa società mista. Questa comunità eterogenea che era presente stabilmente a S’Urachi doveva avere, infatti, un ruolo molto importante nelle dinamiche mercantili.
 
Nel Korakodes limen probabilmente giungevano navi che trasportavano merci assortite che potevano veicolare gran parte dei manufatti provenienti dagli altri territori interessati dal commercio arcaico. Alcuni prodotti, come il sale o quelli provenienti dall’industria del pescato, potevano essere ottime merci di scambio, inoltre la cala poteva offrire luoghi per la sosta e il rimessaggio delle imbarcazioni. Di frequente, nelle vicinanze dei luoghi dove si insediarono i Fenici d’Occidente, si trovavano impianti per la pesca e la lavorazione del tonno: le acque intorno al Korakodes limen vengono indicate spesso come ricche di questi pesci (Bartoloni 2009: 52-53). I pescatori della zona avevano, inoltre, la possibilità di procurarsi il sale in loco, nelle saline di Sa Salina Manna, nei pressi dello scalo portuale. E’ probabile che in cambio di vino, olio, gli abitanti di S’Urachi offrissero, oltre ai prodotti del pescato: metalli provenienti dalle miniere del Montiferru, grano, bestiame, lana, pelli, lino e pietre dure (diaspro, quarzo, corniola) (Stiglitz et al. 2000: 801). 
 
Le attestazioni dell’inizio delle attività commerciali fenicie in età arcaica, presso il Korakodes limen, si collocano in un periodo in cui i gruppi indigeni mostrano un’organizzazione sociale caratterizzata da una certa complessità, con una logica insediativa strettamente legata non solo allo sfruttamento delle risorse del territorio, ma anche alla possibilità d’approdo e ai traffici ad esse legati.
 
 
LE FASI PUNICA E ROMANA
 
La frequentazione del Sinis settentrionale a partire dal VI sec. è ricostruibile soprattutto grazie agli importanti dati di scavo dell’insediamento di S’Urachi-Su Padrigheddu. L’antropizzazione in età punica si intensifica nel IV-III sec. a. C., quando si assiste ad un profondo cambiamento nel sistema insediativo, con il diffondersi nel territorio di siti rurali di piccole e medie dimensioni e vengono rioccupate preesistenti strutture nuragiche (Tore e Stiglitz 1987). Nel porto di Su Pallosu sopravvivono i vecchi mercati, ma se ne inseriscono anche di nuovi e viene attivato il nuovo circuito con la Magna Grecia; lo scalo non è più proiettato esclusivamente verso i traffici transmarini, ma diventa un luogo dove Cartagine intrattiene importanti rapporti multiculturali.
 
Durante il IV-III sec. a. C., le testimonianze subacquee diventano sempre più evidenti: a mezzo miglio a nord dell’isolotto di Sa Tonnara, nel 1989 fu individuato il cosiddetto 'relitto delle macine' (Salvi 2006), caratterizzato dalla presenza di macine di ignimbrite di produzione locale e anfore puniche del tipo Ramòn Torres 5.2.3.I, E1 - classificazione di Bartoloni (Ramon Torres 1995: 199, nn. 186-192), di produzione cartaginese (Bartoloni 1988: 56, fig. 12), contenenti vetro grezzo. Nel corso delle prospezioni sono stati raggiunti importanti risultati grazie al recupero di una grossa quantità di materiale di epoca punica: frammenti di piatti e coppe, lucerne, fondi e orli di anfore puniche di produzione sarda e cartaginese. 
 
A sud di Sa Tonnara, in particolare, è stata individuata un’area di dispersione di frammenti anforacei di anfore della tipologia Ramòn Torres 5.2.3.I. Questi contenitori venivano prodotti a Cartagine e la quantità di derrate che potevano contenere si aggirava intorno ai 25 litri. La forma è caratteristica, il contenitore è privo di spalla, con l’orlo che si innesta quasi perpendicolarmente alle pareti della pancia rettilinea; la parte finale si conclude con un umbone. La tipologia delle anfore è la stessa del 'relitto delle macine'. La presenza più consistente è rappresentata dalle anfore del tipo Bartoloni D7, che ha un enorme diffusione nella seconda metà del IV sec. a.C. E’ una produzione sarda che si differenzia per la linea del corpo 'a sacco' e per la totale assenza del collo. L’orlo si presenta gonfio, le anse sono impostate sulla parte bassa della spalla, le pareti della pancia sono quasi rettilinee, il fondo termina con un umbone distinto (Bartoloni 1988: 50, fig. 10). 
 
Sempre nel corso del IV sec. a. C appaiono le prime anfore greco-italiche (Benoit 1954) , prodotte in Magna Grecia e Sicilia, cui si associano numerosi frammenti di ceramica da mensa e a vernice nera di produzione italica che sostituisce quella attica. In questo periodo la presenza punica nel Sinis settentrionale raggiunge la massima vivacità, e gli insediamenti si distinguono per un’organizzazione territoriale capillare volta a ottimizzare lo sfruttamento agricolo (Stiglitz 1998).
La documentazione più ampia rinvenuta durante le prospezioni riguarda proprio le anfore greco-italiche dei tipi MGS IV e MGS V (Vandermersch 1994: 76), con orlo a sezione triangolare e tesa pressoché orizzontale, che verranno sostituite nel II secolo a. C. dalle Dressel 1 e dalla ceramica Campana A, che rappresenta il fossile guida per lo studio dell’inizio della romanizzazione e ci consente di riscontrare un quadro insediativo speculare a quello del secolo precedente, con continuità di vita nei villaggi punici, almeno fino al I sec. d. C. (Van Dommelen 2003).
 
Cronologicamente, la diffusione delle anfore Dressel 1 caratterizza un periodo che va dalla seconda metà del II a.C. alla prima età augustea; le ragioni di questa longevità sono da ricercare nel vino in esse contenuto, prodotto nell’Italia centrale interna, di largo consumo e a basso prezzo (Tchrenia 1986). Peraltro, questi contenitori avevano maggiore capacità (circa 22 litri) e resistenza rispetto alle anfore greco italiche. Nello specchio d’acqua antistante l’isolotto di Sa Tonnara sono stati rinvenuti numerosi frammenti della variante 1B, il che potrebbe indicare la presenza di un relitto o di un aleggio, cioè una situazione in cui materiali sul fondale sono il risultato di uno scarico intenzionale effettuato da un’imbarcazione in pericolo, allo scopo di alleggerire il peso del carico (Beltrame 1998: 144-145).
 
Durante l'età romana, i materiali indicano che la frequentazione e le attività nel Korakodes portus si intensificano. Nell’area costiera sono state identificare tre necropoli: la prima è ubicata tra gli stagni di Sa Salina Manna e Sa Marigosa, nel sito di San Lorenzo; la sua frequentazione inizia durante la fine dell’età repubblicana e dura almeno fino al VI sec. d. C. (Zucca 2003: 293). Un altro gruppo di sepolture, di età imperiale e tardo-antica, si trovava sulle dune di Su Pallosu, una terza a Putzu Idu, riferibile ad un insediamento che inizia dall’età repubblicana e perdura sino all’alto medioevo (Tore e Stiglitz 1987: 646; Zucca 2003: 293). Infine, alle spalle del moderno abitato costiero di Sa Rocca Tunda, in località Is Aieddus, è localizzato un edificio in opus caementicium, interpretato come villa costiera legata allo scalo portuale e ai suoi traffici (Stiglitz 2006: 71). 
 
Sotto l'aspetto della storia commerciale, l'età imperiale si differenzia profondamente dall'età tardo-repubblicana; durante il II e il I sec. a.C, dall’età augustea nasce un sistema in cui derrate (e manufatti) viaggiano dalle periferie verso il centro, cioè dalle province (soprattutto da quelle ispaniche, africane, galliche) verso l’Italia e gli approdi sardi (Fulford 1987). I ritrovamenti delle ultime prospezioni confermano questa tendenza, in una zona a nord est dell’isolotto di Sa Tonnara è stato individuato un contesto omogeneo riferibile allo stesso carico: è stata rinvenuta, infatti, un’area di dispersione di anfore di produzione gallica e iberica inquadrabili cronologicamente alla fine del I sec. a. C.. Tipologicamente parlando, sono presenti anfore Pelichet 47 contenenti vino (Laubenheimmer 1989), dressel 7-11 contenenti salse da pesce (Tchernia 1971), Haltern 70 contenenti defurtum (Carreras Monfort 2001) e dressel 20 contenenti olio (Remezal Rodriguez 1992).
 
Dopo un periodo di costante crescita (I e II secolo d.C.), si afferma l'egemonia delle merci africane nei traffici mediterranei: durante il III sec. d. C. la produzione di olio d’oliva spagnolo declina, assieme ad altri prodotti provenienti da altre province occidentali, mentre la valle della Mejerda, nell'entroterra di Cartagine, diventa il punto di riferimento per il grano e la regione di Hadrumetum nella Tunisia centrale (la Byzacena) per l'arboricoltura e soprattutto l'olivicoltura (Hitchner 1993). Inoltre, lo sfruttamento tradizionale delle risorse della pesca lungo le coste, da Capo Bon alla Piccola Sirte, assume, come in altri luoghi del Mediterraneo dopo l'età punica, i caratteri di una vera e propria industria (Slim et al. 1999).
 
La dislocazione dei centri di fabbricazione del vasellame e delle anfore sembra concentrarsi nell'odierna Tunisia, già dal II, ma soprattutto nel IV e V sec. d.C. dove si trovavano le coltivazioni dell’olivo. Nella produzione è coinvolta non più esclusivamente l’area costiera, ma anche i territori aridi dell'alta steppa, e saranno proprio questi gli ultimi atelier a sopravvivere nella fase più tarda della produzione (VI-VII secolo d. C.) (Mattingly e Hitchner 1991). Durante le ultime prospezioni sono stati recuperati, sparsi nel fondale dell’area indagata a Su Pallosu, diversi frammenti di anfore di produzione africana: Africana IA, Africana IB (Keay 1984: 100-110, figg. 37-41), Africana IIC, Africana II D (Zevi 1969).
 
Una nuova rotta commerciale, quella che collega Costantinopoli e i territori gravitanti intorno alla nuova capitale con l’occidente, si afferma a partire dalla fine del IV-V sec. d.C. (Panella 1986: 268-269): la diffusione delle anfore di provenienza egea e orientale diventa sempre più rilevante, e nel periodo tardo antico si verifica l’ingresso di prodotti provenienti dalle nuove aree emergenti, con punte massime in Sardegna nella metà del VI sec. d. C., senza per questo intralciare i rapporti privilegiati con l’Africa (Villadieu 1984: 160). La documentazione archeologica mostra che affiancate alla circolazione di derrate africane, sempre presenti almeno fino al VII d.C, si afferma la diffusione nel Mediterraneo di produzioni originaria della pars orientalis dell’impero, che in questo periodo mostra caratteristiche di forte stabilità (Arthur 1989: 82). Anche nelle acque del Korakodes portus è attestata la presenza di frammenti di anfore di produzione egea della tipologia Late Roman 1 e Late Roman 2 (Keay 1984, fig. 120, n. 8).
 
 
DAL MEDIOEVO ALL'ETA' MODERNA E CONTEMPORANEA
 
A partire dal VI sec. d.C. si assiste a un graduale spopolamento nell’area costiera della penisola del Sinis, dall’età preistorica una delle realtà territoriali più antropizzate dell’isola, contestualmente alla progressiva decadenza del centro urbano di Tharros. Le comunità che abitavano i territori prossimi al mare si spinsero in aree più interne e maggiormente protette. Questi movimenti di popolazione, causati probabilmente da un mix di fenomeni naturali e sconvolgimenti socio-politici conseguenti alla caduta dell’impero romano, portarono alla fondazione di nuovi villaggi lontani dalla costa (Ardu 2010; Stiglitz 1998).
 
Nel periodo di passaggio tra l’età tardo antica e l’alto Medioevo, la Sardegna fu prima annessa al regno vandalico, per poi divenire una provincia della diocesi bizantina d’Africa nel 534 d. C. (Ibba 2010). Le prime incursioni da parte degli Arabi furono intraprese all’inizio dell’VIII secolo (Bellieni 1973: 421-423; Bazama 1988: 51-55), e non determinarono in ogni caso la distruzione di centri abitati, ma causarono fasi di abbandono temporaneo; l’episodicità delle scorrerie, a parere di chi scrive, non costituì un elemento decisivo per l’abbandono definitivo delle aree costiere.
 
Probabilmente, tra le cause scatenanti di questo fenomeno vi furono alcuni importanti cambiamenti climatici intercorsi tra il 500 e il 700 d.C.: questo periodo infatti, caratterizzato da un abbassamento generale della temperatura nell’emisfero boreale, è definito dagli studiosi Piccola Età Glaciale Alto Medievale. Di particolare rilievo furono gli eventi metereologici estremi che si verificarono negli anni 535-536, riferiti dai cronisti dell’epoca (Keys 2000: 27-32; Marriner et al 2010: 43-48). Durante questi sconvolgimenti, le aree costiere subirono consistenti mutamenti con rapide progradazioni della linea di costa che comportarono il colmamento di preesistenti aree umide e la formazione di nuove lagune (Caiazza et al. 2009). Anche le attività nel Korakodes portus si interrompono in questo periodo, mancano fino al XVI sec. d. C. evidenze materiali relative alla frequentazione della cala; l’approdo comunque sarà sempre utilizzato per importanti attività produttive, come lo sfruttamento delle saline e le tonnare (Stiglitz 2006: 73). 
 
Nel X sec. d. C, la Sardegna si separa gradualmente dall’impero bizantino, fino alla costituzione dei regni giudicali (Spanu 2008). Giorgio di Cipro, nel VII sec. d. C., colloca tra 'Aristanis' (Oristano) e 'Kastron tou Taron' (Tharros), l’insediamento di San Giorgio, nei pressi dell’attuale villaggio di San Salvatore. Il ritrovamento in questo sito, nel 1998, di numerosi sigilli plumbei, indica l'appartenenza degli abitanti ad un gruppo sociale facoltoso, probabilmente di composizione etnica eterogenea (Panico e Spanu 2015). In particolare, due sigilli databili tra la fine X e gli inizi dell’XI sec. d. C. attestano la possibile e più antica titolatura dei Giudici di Arborea (Spanu e Zucca 2004: 145).
 
Nello stesso periodo, in Spagna avviene una ribellione dei potentati locali, ed in particolare di quello di Denia che si rese indipendente dal Califfato di Cordova grazie all'azione del famoso Museto - Mujahid ibn 'Abd Allah al-Amiri. Nel 1015-1016 quest'ultimo intraprende delle incursioni in Sardegna, attaccando l'isola dalle sue basi nelle Baleari, come attestato da fonti locali e arabe (Stasolla 2002): la spedizione non andò a buon fine, tuttavia non è chiaro se l’intento fosse di conquistare la Sardegna o la realizzazione di una testa di ponte. Il cronista arabo Ibn al-Atir scrive: «… dopo questo [avvenimento], [l’isola] non subì altre incursioni» se non sporadiche azioni di razzia (Serreli 2014). 
 
Un unico interessante oggetto proveniente dall'area oggetto di studio potrebbe attestare il passaggio o la presenza di popolazioni islamiche in epoca medievale: si tratta di un anello rinvenuto fuori contesto nel basso fondale di fronte alla spiaggia di Su Pallosu (Fig. 11). 
 
 
 
Fig. 11 - Su Pallosu: anello in bronzo con iscrizione in arabo (foto A. Ardu).
 
Sull’anello, in bronzo e con castone circolare del diametro di 18 mm, è incisa una formula الملك لله وحده (al-Mulk li-llah Wahda-hu) - 'La sovranità appartiene solo a Dio'. Chi scrive ha consultato in merito tre studiosi esperti in epigrafia islamica: Chokri Touihri dell’Università di Tunisi, Almudena Ariza Armada dell’Università di Madrid, e Alexander Metcalf dell’Università di Lancaster (UK). Secondo la loro opinione, l'oggetto è difficilmente collocabile in un preciso ambito cronologico, in quanto la formula dell’iscrizione era molto utilizzata nel mondo islamico fino a tempi abbastanza recenti. Tuttavia possono essere fatte alcune riflessioni al riguardo, a partire dal fatto che la penisola del Sinis è localizzata geograficamente proprio 'di fronte' a Mahon (Minorca), e che nel tratto di mare tra le isole Baleari e la Sardegna soffiano per gran parte dell’anno venti del IV quadrante da Nord/Ovest e da Ovest, i quali facilitano la navigazione verso le coste sarde ma ostacolano quella contraria (Guerrero Ayuso 2004: 94); per tale motivo è pensabile che le navi potessero giungere nel Korakodes limen durante tutto il corso dell’anno. L’iscrizione dell’anello-sigillo, per quanto non riferibile esclusivamente alla calligrafia Almohade, appare tuttavia simile ad altre rinvenute in alcune monete coniate da Mujahid (Ariza Armada com. pers.). Sarebbe entusiasmante appoggiare questa ipotesi che potrà essere comprovata solo in seguito a accurate analisi del reperto. Risulterebbe fondamentale per gli studi futuri la possibilità che l’anello appartenesse a un membro dell’esercito che aveva partecipato a queste spedizioni, forse caduto in mare per una perdita accidentale o perduto a causa di un naufragio.
 
L’anello con iscrizione in arabo è l’unico reperto che potrebbe attestare una frequentazione della cala di Su Pallosu durante l’età giudicale: nessun reperto è ascrivibile ai successivi 400 anni. Sicuramente l’approdo era sempre interessato da rotte commerciali, come attestato nel Compasso de navegare, un portolano medievale, redatto tra il 1250 e il 1265 d. C, dove si parla del porto sardo del Capo de le Saline, a proposito di una rotta verso settentrione dove è stimata la distanza dell’approdo sopracitato con Aigues Mortes, ad occidente delle bocche del Rodano, non lontano da Marsiglia, una rotta calcolata in 425 miglia e corrispondente all’attuale collocazione del Korakodes limen.
 
Le testimonianze archeologiche di un’assidua frequentazione del porto si ripresentano a partire dal XVI secolo d. C, dopo la conquista catalano-aragonese e durante le prime incursioni nordafricane dei corsari barbareschi che interessarono l’area del Capo Mannu con le sue peschiere, tonnare e saline (Mele 2006). Durante gli scontri tra gli Stati dell’Europa mediterranea e l’Islam nei tre secoli dell’età Moderna, si adotta una strategia militare con sistemi più o meno coordinati di difesa. La pirateria e le scorribande, infatti, erano fenomeni con fasi più o meno intense, collegate alle situazioni geopolitiche (Serreli 2006). Restano oggi nell’area di Capo Mannu i ruderi di tre torri costiere (Sa Mora, Capo Mannu e Scab ‘e Sali) e il torrione di guardia delle saline, dove veniva pesato il sale (Stiglitz 2006: 73). Questi edifici difensivi legati al controllo della costa furono edificati con il concorso finanziario del governo e dagli appaltatori che gestivano l’attività per garantire la tutela dell’economia locale (Murgia 2006).
 
I reperti provenienti dalle recenti prospezioni nel fondale della Cala di Su Pallosu sono classificabili sia tipologicamente che cronologicamente, e dimostrano la frequentazione dell’approdo per ben quattro secoli. La prima menzione delle saline di Capo Mannu (Fig. 12) compare nel 1311 nella carta nautica di Pietro Vesconte (Tore e Stiglitz 1987: 633; Stiglitz 2006: 64), mentre la frequentazione della tonnara di Su Pallosu inizia dal XVII sec. (Stiglitz 2006: 64, nota 21).
 
Fig. 12 - Sa Salina Manna (foto A. Ardu).
 
Attualmente sono visibili a Sa Tonnara i ruderi di alcuni edifici, un muro di cinta lungo i margini dell’isolotto e una cisterna quadrangolare (Fig. 13; Stiglitz 2006: 64).
     
 
Fig. 13 - Isolotto di Sa Tonnara: resti degli edifici della tonnara (foto A. Ardu).
 
I materiali più antichi risalgono al XVI sec. d. C: si tratta di ceramiche caratterizzate da un impasto ferrico rosso aranciato, ricco d’inclusi quarzosi, tipico dell’oristanese (Annis 1995; Milanese 2000). L’utilizzo delle due tecniche più rappresentative (slip ware e graffita), offrì la possibilità ai ceramisti oristanesi di competere con le produzioni d’importazione in ambito regionale, di cui imitavano le fattezze nelle decorazioni e cromie. Queste produzioni, scarsamente standardizzate, non raggiunsero livelli di tipo industriale, ma erano diffuse nei mercati isolani - finora non sono stati rinvenuti reperti al di fuori dalla Sardegna (Dadea e Porcella 2001).

I due frammenti di graffita e slip ware selezionati per questo lavoro appartengono al gruppo delle ceramiche invetriate decorate, caratterizzate da rivestimenti di natura piombifera, ed erano probabilmente prodotti nelle stesse botteghe oristanesi (Fig. 14; Ferru 1995). Il primo appartiene a un piattello a calotta emisferica schiacciata con larga tesa e orlo rialzato, l’impasto è di colore arancio leggermente vaculoso e con inclusi quarzosi. La decorazione è graffita con una punta sottile su ingobbio avorio giallino sotto vetrina incolore; sulla tesa appare un motivo a serpentina continua. Il secondo è un piatto con breve tesa piana, impasto arancio e decorazione a slip ware, realizzata con ingobbio giallo sotto vetrina giallo lionata; la decorazione rappresenta una teoria di gigli. 

 
    
 
Fig. 14. Su Pallosu, frammenti di ceramica graffita e in slip ware (foto A. Ardu).
 
I materiali d’importazione rinvenuti durante le prospezioni subacquee riguardano manifatture fabbricate in larga parte dalle botteghe toscane. La presenza di ceramiche provenienti dalla penisola nella cala di Su Pallosu, per quanto dimostrata, è poco diffusa, rispetto ad altre aree dell’isola. Ciò non significa però necessariamente che gli approdi della Sardegna centro-occidentale fossero esclusi dalle più frequenti rotte mercantili (Salvi 1997: 469). I materiali importati dimostrano la vitalità del porto nel periodo in cui era attiva la tonnara: sparse nel fondale, queste ceramiche sono probabilmente il risultato di pulizia di bordo, spesso effettuata all’approdo per eliminare i materiali che hanno subito danni durante il viaggio o mentre venivano effettuate le operazioni di scarico delle merci (Fig. 15). Il primo reperto è il frammento di un piatto in 'graffita tarda' a punta policroma su ingobbio avorio rivestito esternamente con vetrina giallo paglierina, di produzione pisana e risalente alla seconda metà del XVII o alla prima metà del XVIII sec. d. C. (Berti 1984). L’altro è il fondo di un bacile a calotta sferica in maiolica con smalto coprente e opaco; la decorazione è a spirale in giallo e bruno. Un prodotto nelle botteghe di Montelupo Fiorentino che risale alla metà del XVIII secolo d. C., un periodo in cui il processo produttivo è poco accurato e le decorazioni standardizzate; la committenza era probabilmente in prevalenza popolare (Berti 1986). 
 
         
Fig. 15 - Su Pallosu, frammenti di ceramica 'graffita tarda' pisana e montelupina (foto A. Ardu).
 
Nel corso delle prospezioni sono stati inoltre rinvenuti numerosi frammenti di ceramiche da mensa in 'terraglia nera', prodotta in Liguria e in particolare ad Albisola nel primo decennio dell’ottocento: si tratta di una terracotta ricoperta da una vernice che, per la presenza dell’ossido di manganese per effetto della cottura, assume una colorazione tendente al nero con riflessi metallici (Dadea 1999). Il XIX secolo è rappresentato peraltro da numerose stoviglie policrome, ben evidenti sul fondale, nonostante la fitta vegetazione di posidonie, le forme più diffuse sono piatti piani e fondi, pentole, boccali e fiasche (Fig. 16).
 
        
 
Fig. 16 - Su Pallosu: orlo di piatto in “terraglia nera” e ansa di pentola invetriata a torciglione in argilla refrattaria (foto A. Ardu).
 
I materiali più recenti risalgono all’inizio del Novecento: si tratta di fiasche e brocche in terracotta parzialmente ingobbiate e invetriate di produzione oristanese (Annis 2007: 134) e di frammenti di piatti in terraglia bianca (Figg.17-18). 
 
       
 
Fig. 17 - Su Pallosu: bocche di fiasche e brocche invetriate (foto A. Ardu).
 
 
   
 
Fig. 18 - Su Pallosu: frammenti di piatti in terraglia bianca (foto A. Ardu).
 
 
PROSPETTIVE DI RICERCA FUTURE
 
L’intento di questo lavoro è stato quello di raccontare la storia del Korakodes limen, inteso principalmente come interfaccia privilegiata di incontro di differenti gruppi umani, culture materiali e dinamiche socio-economiche. Esso si caratterizza come uno dei punti geografici della Sardegna in cui l'interazione economica e culturale ha svolto quella importantissima funzione catalizzatrice che definì la fisionomia culturale dell'isola a partire almeno dall'Età del Ferro in avanti. 
 
Grazie ai dati acquisiti in queste due campagne di prospezioni subacquee, per la prima volta in Sardegna è stato possibile avere una  visione complessiva delle attività produttive e commerciali relative ad un singolo approdo in un arco cronologico molto ampio. Sono state prese in esame le varie fasi della vita dell'approdo, a partire dal materiale diagnostico rinvenuto nel corso delle prospezioni che è stato inserito nella specifica cornice storico-archeologica di riferimento. Sono stati analizzati modelli diversi e articolati di contatto e interrelazione tra le popolazioni locali e le genti che giungevano attraverso il mare nei loro territori, dal Bronzo recente (1350-1150 a. C.) fino alla fine del XIX secolo. Sono stati rilevati numerosi indicatori di processi di trasformazione/interazione tra uomo e ambiente, come i mutamenti della linea di riva e l’alterazione dell’habitat costiero, che saranno sempre meglio evidenziati dalle future attività d’indagine condotte sul campo possibilmente avvalendosi della collaborazione di specialisti di differenti settori.
 
Dopo le prime attestazioni di frequentazione dell'area risalenti al II millennio a.C., il periodo di maggiore vitalità del porto è risultato quello delle fasi punica e romana, come testimoniato dalla presenza di anfore e ceramica da mensa, e dal ritrovamento di dotazioni di bordo come ancore e scandagli, che attestano la presenza di relitti di natanti. A queste fasi di estrema vitalità seguì un abbandono temporaneo della frequentazione legato a importanti fenomeni politici e sociali, come la caduta dell’impero, e a eventi climatici estremi, che comportarono lo spopolamento delle coste in favore della creazione di nuovi insediamenti nell’entroterra o la valorizzazione di quelli già esistenti. La ripresa delle attività di estrazione del sale e l’installazione di tonnare, a partire dall’età moderna, restituirono allo scalo l’antica produttività per ben quattro secoli, con una fisionomia economica probabilmente differente rispetto alle fasi precedenti ma pur sempre di notevole dinamismo.
 
 
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