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Conference proceedings - “Incontri di Archeologia - Studenti Sapienza", Atti delle Giornate del 27 aprile - 12 e 24 maggio 2018
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Italian
ABSTRACT
The Tabularium of Rome is a building better known for its function than for its structure. During the Middle Age, it was incorporated into the buildings constructed on the Campidoglio, and this produced a constant loss of data and made the analysis of the structure very difficult. Starting from the architectural analysis of Delbrueck in 1907, with the most famous reconstruction of the Tabularium, in recent years several hypotheses, concerning both its function and structure, have been postulated. In 1993 Purcell identified the Tabularium as the Atrium Libertatis, while in 2005 Tucci hypothesized it could be the temple of Iuno Moneta; finally, in 2010 Coarelli considered the structure a triple temple complex. The present study has examined these hypotheses; starting from the architectural data and considering specifically the real functions of a Tabularium, the reconstructive hypothesis here proposed is that originally the Tabularium was structurally similar to a domus.
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‘Il monumento […] è - come avviene spesso a Roma - più celebre che veramente conosciuto’. Con queste parole Filippo Coarelli si riferisce al Tabularium in un suo articolo (1994) e proprio da questa frase è iniziato questo lavoro. Sono parole emblematiche che ci fanno capire come le indagini, nonostante gli studi più recenti, non siano arrivate ad una trattazione completa su ogni aspetto di questo monumento.
Ciò che rimane del cd. ‘Tabularium’ si trova sotto il Palazzo Senatorio, nello spazio tra le due cime del Capitolium e dell’Arx, in posizione prospiciente al Foro Romano, posizione che per la sua storia rende difficile la lettura e le indagini delle evidenze archeologiche, essendo un luogo senza soluzione di continuità dall’antichità fino ai giorni nostri. Proprio per tale motivo il monumento venne inglobato nelle strutture medievali, rinascimentali e moderne stratificate una sopra l’altra, rendendo la lettura dell’edificio più complessa.
Il nome del monumento viene da un’iscrizione conservata nella raccolta di Niccolò Signorili Descriptio Urbis Romae, poi riproposta da Poggio Bracciolini nella sua opera De Varietate Fortunae, entrambe le opere datate al XV secolo d.C.
Il testo recitava: Q(uintus) Lutatius Q(uinti) f(ilius) Q(uinti) [n(epos)] Catulus co(n)s(ul)/ substructionem et tabularium / de s(enatus) s(ententia) faciundum coeravit [ei]demque/ pro[bavit] (CIL VI, 1314).
Una seconda iscrizione (Fig. 1), rinvenuta durante i lavori di scavo condotti da Canina a metà Ottocento nel settore E del colle e rimessa in opera dove egli riteneva dovesse stare, non riporta però il termine Tabularium; essa si trova sulla piattabanda della porta che conduce dal primo ambiente, delle stanze sul lato NE, al vano per scendere nella substructio e riporta:
[Q(uintus) Lu]tatius Q(uinti) f(ilius) Q(uinti) n(epos) C[atulus co(n)s(ul)/ de s]en(atus) sent(entia) faciundu[m coeravit]/ eidemque [p]rob[avit] (CIL VI, 1313).
Fig. 1 - Disegno dell’iscrizione sulla piattabanda ritrovata dal Canina (Delbrüeck 1907: 25, fig. 24).
Grazie all’accenno al consolato di Q. Lutazio Catulo è stato possibile ritenere che il completamento della costruzione fosse avvenuta tra il 78 a.C., anno del suo consolato, ed il 65 a.C.
Per l’analisi strutturale del complesso, il lavoro condotto da Richard Delbrueck nel 1907 è un punto fondamentale per il suo studio (Figg. 2-3). Questo suo lavoro, Hellenistische Bauten in Latium, analizza l’intera struttura in ogni suo particolare e rimane ancora oggi una solida base per lo studio, nonostante sia un lavoro datato e risenta di una documentazione precedente agli scavi condotti da Colini nel 1939 che portarono alla scoperta del Tempio di Veiove (Colini 1942), che misero in luce il perimetro completo del Tabularium. Sarebbe auspicabile quindi un aggiornamento della documentazione grafica e di conseguenza dell’analisi strutturale.
Fig. 2 - Pianta del pianterreno del 'Tabularium', con gli edifici più tardi, scala 1:750 (Delbrueck 1907, fig. 22).
Fig. 3 - Disegni della sezione della scala principale e piante delle due rampe (Delbrueck 1907, tav. VI).
Importante fu l’ipotesi di un secondo piano non più esistente ma ipotizzabile grazie ai resti architettonici ritrovati davanti alla Porticus Deorum Consentium e presso il podio del Tempio di Vespasiano, che Delbrueck attribuì al Tabularium (Delbrueck 1907; Fig. 4).
Fig. 4 - Disegni riproducenti i frammenti architettonici posti nell'area della Porticus Deorum Consentium: analisi del frammento di capitello con foglie lisce (Delbrüeck 1907, p. 43, fig. 41).
Inoltre Delbrueck riprese una teoria di Jordan (1881), che ipotizzava l’esistenza di un edificio annesso al Tabularium, ma legato alla funzione di Aerarium del Tempio di Saturno. L’esistenza di una porta nel corridoio della substructio fece ipotizzare che questa potesse immettere solo in un edificio a più piani, il quale copriva gli ultimi due pilastri della galleria porticata, ed infatti l’undicesimo pilastro della galleria, quello a O, non ha la sua semicolonna per intero (Fig. 5).
Fig. 5 - Ricostruzione del Tabularium, scala 1:300 (Delbrueck 1907, tav. I).
Quella riportata precedentemente non è l’unica teoria relativa alla ricostruzione del piano superiore del Tabularium: nel tempo ce ne sono state alcune, molto diverse tra loro a seconda delle prove portate dai vari studiosi. A esempio la teoria del 1993 di Nicolas Purcell localizza l’Atrium Libertatis sulla sostruzione, rileggendo in maniera diversa la lettera di Cicerone ad Attico relativa alla compravendita dei terreni nel luglio del 54 a.C. per conto di Cesare (Cic. Ad Att.4.16.8). Nel 2005 Tucci ipotizzò che qui ci fosse dovuto essere il Tempio di Giunone Moneta (Fig. 6), mentre Coarelli ipotizzò che qui vi fosse un triplice complesso templare, legato all’ideologia sillana (2010; Fig. 7). Le ipotesi legate al Tabularium di Coarelli non si limitano alla ricostruzione della parte superiore della struttura, ma riguardano anche cosa vi era accanto. esempio, lo stesso autore nel 1994 ipotizza la presenza della zecca repubblicana nelle stanze a NE del complesso, usando a suo favore l’argomentazione che queste stanze non sono collegate in alcun modo con il monumento se non per la galleria nella substructio, la quale non ha altre direzioni se non da queste stanze verso la porta aperta nella facciata della substructio, all’altezza del Portico degli Dèi Consenti (‘l’edificio sud-occidentale’ di Delbrüeck).
Il corridoio interno, perdendo la funzione di collegamento dopo la chiusura di questo ingresso e lo spostamento della zecca vicino al Ludus Magnus (Valentini - Zucchetti 1953), venne occupato da una canalizzazione in laterizio datata in età traianea grazie ai bolli laterizi (Bloch 1947). Questo passaggio era una sorta di percorso protetto per la sicurezza del denaro, realizzando uno stretto rapporto tra l’Aerarium ufficiale, l’officina Monetae e l’edificio scomparso, teoria cui qui si accenna per dare un’idea della diversità delle funzioni possibili del complesso.
Fig. 6 - La facciata del Tabularium con il tempio ottastilo di Iuno Moneta sopra: ricostruzione del Tucci del tempio superiormente alla substructio, usando come basi il disegno ricostruttivo di C. Moyaux, 1866 (Tucci 2005, fig. 13).
Fig. 7 - Ricostruzione del Tabularium insieme con i tre templi (Coarelli 2010, fig. 15).
A tal proposito sarebbe auspicabile un nuovo studio, più approfondito e dettagliato, che analizzi la struttura nel suo intero, dal punto di vista della statica, per comprendere quindi i carichi di peso gravanti su ogni parte del complesso per giungere ad ipotizzare cosa potesse esserci sopra.
Un esempio di ciò si può notare riguardo la galleria porticata. Sappiamo dal Nibby che, quando si fece uno scavo nel 1830, la galleria ‘era lastricato originalmente, come una via, di poligoni di lava’ (1838), lastricato successivamente rimosso (Fig. 8); questa informazione è molto preziosa perché ci fa capire che questa galleria era una vera e propria via tecta, proseguimento di una qualche via urbana.
Fig. 8 - Foto all'interno della galleria porticata con, in negativo, i segni dell’asportazione dei basoli.
La via è forse identificabile con il proseguimento della via intramuranea che correva sulla sella Campidoglio-Quirinale, secondo la teoria di Palombi (2016). Questa, partendo dal Quirinale, percorrendo la sella, non si sarebbe fermata alla Porta Fontinalis, ma sarebbe proseguita sull’Arce verso il Campidoglio per un percorso di tipo mezzacosta.
L’esistenza di questa strada è anche testimoniata da due episodi, molto diversi nel tempo tra loro. Il primo, riportato da Livio (Liv. 5. 46. 2-3), accadde durante l’assedio gallico: Caio Fabio Dursone scese dall’Arce vestito con cinto gabino e attraversò i nemici per raggiungere un luogo sul Quirinale dove celebrò i sacra gentilicia, ritornando poi seguendo la stessa strada. Questa connessione diretta tra Arce e Quirinale fa pensare che ci sia stato un collegamento diretto.
L’altro episodio riguarda la vicenda di Tito Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, che nel 69 d.C. dalla sua casa sul Quirinale si diresse verso il Campidoglio, come riporta Tacito (Tac., Hist. 3. 69-70). Dopo un primo scontro nei pressi del lacus Fundanus, nell’area di via XXIV Maggio, ci sono varie ipotesi per il percorso di Sabino: una di queste è che Sabino abbia percorso il vicus Laci Fundani fino a valle, poi seguendo il clivo suburraneo e argiletano sia risalito sull’Arce passando per il Foro Romano; un’altra è che, dopo lo scontro al Lacus Fundanus, Sabino sia uscito dalla Porta Sanqualis per raggiungere la Porta Fontinalis, ma per un percorso più veloce, visto il momento frenetico, e Palombi (2016) ipotizza che Sabino sia sceso per il tratto del vicus Laci Fundani, all'angolo settentrionale del Foro di Augusto abbia girato percorrendo la cresta della sella collinare fino a raggiungere l’Arce.
Tutto ciò darebbe un senso alla via basolata all’interno della galleria porticata, inquadrandola in un tratto della viabilità urbana di questa porzione di Roma. Con l’eliminazione della sella ed i cambiamenti urbani della zona nel corso del tempo, questo tratto basolato sarebbe rimasto muto, staccato completamente dal contesto. Ma tornando alla questione della statica, il lavoro di Mura Sommella (1981; 1984) rese manifesti i dissesti, ad esempio quello relativo al fuori piombo di almeno uno dei pilastri e fecero acquisire elementi relativi alla tecnica costruttiva delle fondazioni ed alla natura del terreno grazie a dei saggi di scavo.
La galleria porticata era composta da 11 volte a padiglione (Fig. 9), alcune delle quali in età medievali sono state trasformate in volte a botte. Queste, in antico, non sarebbero state in grado di sostenere un notevole peso superiore e probabilmente avevano una copertura a terrazza, lasciata libera (Giuliani 2006). Questa informazione è molto utile perché ci permette di escludere il posizionamento di qualsiasi edificio pesante su di essa, come un podio di un tempio secondo la teoria di Tucci. Il dissesto creatosi in età medievale non ci sarebbe stato, poiché la facciata della sostruzione sarebbe stata coperta dal terreno accumulatosi ed inoltre le arcate sarebbero state tamponate, permettendo quindi il sostegno del Palazzo Senatorio sopra. Solo quando il monte di terra venne tolto e le arcate liberate, con il tempo si venne a creare questo squilibrio statico, che ha comportato il fuori piombo del pilastro di cui si è detto prima.
Fig. 9 - Pianta che mostra i tipi di coperture degli ambienti (Delbrueck 1907: 24, fig. 23).
Lasciando da parte un momento la planimetria, un altro campo di indagine è l’analisi del dato materiale, in questo caso quegli elementi architettonici che Delbrueck ipotizzò appartenessero al piano superiore. Dal loro studio e considerando la posizione originaria del crollo egli poté formulare l’ipotesi ricostruttiva del piano superiore (Fig. 4). Se per esempio prendiamoin considerazione il frammento di capitello corinzio con foglie lisce, datato da Delbrüeck al I secolo d.C., più specificatamente ad età flavia, ritenuto un’aggiunta posteriore o una costruzione di restauro, ci accorgiamo subito di un’incongruenza: in età flavia avremmo avuto le decorazioni sul capitello realizzate con il trapano, per velocizzare la manifattura, con la resa della foglia d’acanto più naturale, con le costolature e le nervature incise e le zone d’ombra realizzate col trapano per creare un effetto di chiaroscuro (Pensabene 1973). Questo frammento invece sarebbe confrontabile con alcuni capitelli corinzi a foglie lisce di Ostia, datati tra la fine del II ed il III secolo, forse anche al IV secolo d.C., e con un capitello del Colosseo datato alla fine del IV- primi decenni del V secolo d.C. (Pensabene 2015). La somiglianza tra il frammento analizzato da Delbrüeck e questi capitelli farebbe dunque pensare che potrebbero essere stati realizzati nello stesso quadro cronologico, in un’epoca successiva all’età flavia.
A questo punto sarebbero ipotizzabili due teorie: la prima è che in età successiva a quella flavia sarebbe stato realizzato un restauro del complesso, mentre la seconda ci fa ritenere che questi frammenti potrebbero appartenere ad un altro monumento della zona. Per gli altri frammenti l’analisi è più complessa, in quanto dai disegni di Delbrüeck è difficile poter realizzare dei confronti o solamente l’analisi di essi; sarebbe quindi auspicabile poterli ristudiare nuovamente, analizzandoli per vedere se ci sono corrispondenze con architetture circostanti o confronti con altri frammenti simili. Ovviamente non è possibile analizzare un frammento solo guardando il disegno, ma quest’analisi può essere uno spunto per riportare sul tavolo delle discussioni questa faccenda.
Passando poi al dossier epigrafico, oltre le prime due citate all’inizio, ve ne è una terza, ormai scomparsa e tramandata solo da un manoscritto inedito fino al 1999, riscoperto tra gli scritti di Emilio Sarti, conservati nell’Archivio Capitolini e relativi agli anni 1833-1842.
Oltre queste poche fonti epigrafiche, non vi sono testimonianze nelle fonti letterarie, non vi è né una descrizione né un riferimento a vicende ad esso legate, come se vi fosse un vuoto nella documentazione, nonostante la teoria che si tratti del luogo dove venivano conservate le tabulae publicae, i documenti d’archivio dello stato romano.
La prima iscrizione, la più completa, venne riportata per la prima volta nella raccolta di Niccolò Signorili, della prima metà del XV secolo, lo stesso venne poi citato da Poggio Bracciolini, nella prima metà del Quattrocento. Il lavoro di Niccolò Signorili si pone dopo gli anni complessi succedutisi tra la seconda metà del XIV e l’inizio del XV secolo: in un periodo di anarchia nobiliare vennero distrutti sia gli archivi della Chiesa sia quelli Capitolini da Giovanni Colonna, nella primavera del 1413 fu disperso ciò che ne restava dalle milizie di Ladislao di Durazzo e successivamente da Braccio da Montone e Francesco Sforza (Valentini - Zucchetti 1953). Con la venuta di papa Martino V nel 1423 a Roma, l’opera di Signorili si ripropose di richiamare quei diritti e preminenze godute dalla Curia papale e da quella Capitolina, da tempo non concessi.
Nel 1427 venne fortificato il Palazzo Senatorio con la costruzione di una torre, palazzo che già nel marzo 1420, prima del ritorno della Curia, la Camera Urbis, aveva provveduto a restaurare; del resto, in quanto simbolo del potere municipale, nel 1404 i Romani avevano chiesto ad Innocenzo VII di provvedere proprio al restauro del Campidoglio, che avrebbe dovuto tra l’altro recuperare la sua funzione di centro politico e amministrativo contro il degrado della città (Bianca 2000).
Signorili, raffinato umanista e dotto uomo d’archivio, avendo anche prodotto una silloge di iscrizioni, riporta i testi seguendo l’impaginazione sui supporti epigrafici, senza alterazioni ortografiche, facendoci ritenere che quindi l’iscrizione principale sia riportata in modo corretto. Importante è il riferimento alla sua posizione, in quanto viene detto che questa epigrafe era ‘In fundamentis Capitolii, ubi nunc est Salare maius, sunt litterae scriptae’.
La seconda menzione non è uguale a quella di Signorili ed infatti riporta: Q. Lutatium Q. f. et Q. Catulum coss. Substructionem et Tabularium de suo faciundum coerauisse (Codice Firenze, Riccardi 871), ma ciò si spiegherebbe con l’aver riportato il testo con degli errori. Poggio riporterebbe anche la posizione di questa iscrizione: ‘Extant in Capitolio fornices duplici ordine nouis inserti edificiis publici nunc salis receptavulum, in quibus sculptum est litteris uetustissimis atque admodum humore salis exesis’.
Grazie a questa descrizione è stato possibile individuare la ‘Salara’ capitolina, cioè l’ambiente che fu utilizzato tra il XIV ed i primi decenni del XVII secolo come deposito del sale, nell’ambiente a doppia navata al piano terra del Palazzo Senatorio, il quale prospetta sulla Piazza Capitolina, oggi conosciuto come ‘Galleria di Sisto IV’. Per la sua errata collocazione, pensata nella galleria porticata del Tabularium, grazie all'interpretazione dei disegni e delle incisioni d’epoca in cui si vede un ingresso dalla parte del Foro Romano (Mura Sommella 1994; Fig. 10), si era pensato che l’epigrafe fosse su questo lato, all’interno, mentre in realtà doveva essere posta nella parte verso la piazza (Mura Sommella 1999).
Fig. 10 - Etienne Du Pérac: disegno, veduta del Foro Romano, come si presentava nella seconda metà del Cinquecento, precisamente anteriormente al 1536 (Mura Sommella, 1984).
Entrambi gli autori però non hanno descritto il supporto su cui era posta l’epigrafe, né tanto meno hanno fornito informazioni sulle sue dimensioni; dai loro testi verrebbe confermata solo la presenza di questa iscrizione nella ‘Salara’, e di come questa si fosse rovinata proprio a causa della sua posizione. Lo stesso Poggio riferisce di come le lettere non fossero ben visibili a causa del sale. Qualche decennio dopo, Fra’ Giocondo non era più in grado di vedere questa iscrizione ‘quaesivi et non inveni, coopertum puto ab ipso salare superaedificato’, ipotizzando che fosse ormai nascosta a causa della costruzione del deposito del sale voluta da papa Sisto IV (Tucci 2014). È possibile allora ipotizzare che l’iscrizione si fosse rovinata a tal punto da non essere più leggibile in alcun modo, oppure che questa venne distrutta durante i lavori di costruzione del magazzino, essendosi rovinata a tal punto che fu scambiata per resti di materiale edilizio.
Nel 2010 Coarelli affermò che questa iscrizione non si doveva trovare nella Galleria di Sisto IV, bensì sulla facciata della sostruzione, a circa m 10 dal livello del suolo in una rientranza poco profonda, tra la porta della scala principale e l’edificio che verrà poi sostituito dalla Porticus Deorum Consentium. Questa misura in altezza m 0.6 ed in larghezza m 1.8 e doveva essere riempita con una tavola di un materiale diverso rispetto a quello dei blocchi di opera quadrata, forse in travertino, che fu rimossa. Per Coarelli il posizionamento dell’iscrizione in questo luogo risolverebbe i dubbi del testo stesso e degli edifici a cui si rivolgerebbe: infatti prima si riferirebbe alla substructio, nella quale l’iscrizione era inserita, poi al Tabularium, (ri)costruito nello stesso periodo e che non potrebbe che essere l’edificio sud-occidentale di Delbrüeck.
A questa ipotesi è stata mossauna critica da Tucci nel 2014: quando Poggio riporta il testo dell’iscrizione, la rientranza si trovava m 5 sotto il livello del terreno di quel tempo. Per risolvere la questione sull’identificazione di questa rientranza, Tucci ha proposto che si tratti di una tomba medievale, realizzata nel monte di terra addossato alla substructio e che per la sua realizzazione abbiano intaccato i blocchi di peperino, generando quindi questa rientranza, la quale, una volta liberata dalla terra l’area antistante la sostruzione , non sarebbe stata più vista come un’azione successiva ma, come ha supposto Coarelli, realizzata contestualmente alla costruzione della sostruzione.
Se poi si volesse tornare sulla questione dell’identificazione del luogo di affissione della prima iscrizione, la proposta di Coarelli risulterebbe smentita dalle prove dimensionali. Usando come termine di paragone la seconda iscrizione, noi abbiamo un’epigrafe mutila che si estende in larghezza di circa m 1.78, la quale non contiene i termini substructio e tabularium, fondamentali nella prima epigrafe. Se noi volessimo usare la grandezza delle lettere della seconda iscrizione per ricostruire la prima, alla fine si avrebbe un’iscrizione ben più larga di m 1.80, quale è la rientranza sulla facciata, facendo decadere l’ipotesi di Coarelli. Ed ancora, se la prima epigrafe è da considerare la principale, le dimensioni delle lettere della seconda, di circa cm 13, non sono da prendere in considerazione, poiché questa si trovava in un passaggio di servizio, mentre per un’epigrafe monumentale le dimensioni dei caratteri dovevano essere maggiori, così da essere ben leggibili. Questo piccolo inciso è servito per avere un’idea migliore delle dimensioni della prima epigrafe, usando come termine di paragone l’iscrizione rimasta, per ipotizzare meglio una sua collocazione o almeno per escludere una posizione errata.
Tornando ad analizzare il testo epigrafico, questo riporta la costruzione ed il collaudo di due parti del complesso, la substructio ed il tabularium; sull’esistenza della substructio non esiste alcun dubbio, poiché la costruzione dell’edificio adopera appunto delle sostruzioni per innestarsi sulla sella del Campidoglio e sul versante del colle, mentre di dubbi esistono per quanto riguardi il tabularium, non essendo stato identificato.
Secondo Mura Sommella (1999), il termine si riferirebbe ai livelli più alti dell’edificio, oggi scomparsi, sede degli archivi. Mommsen ebbe dei dubbi sulla veridicità quanto riportava Poggio, forse perché l’iscrizione non si riferiva all’edificio esistente sopra la sostruzione, ma ad un altro edificio. La sua idea era che questo termine si riferisse alle favissae capitolinae, camere sotterranee al di sotto del tempio di Giove Ottimo Massimo facenti per esso funzione di archivio, realizzate durante i lavori di ricostruzione del tempio svolti da Catulo stesso. Questo luogo così chiamato però non coinciderebbe invece con l’edificio che aveva questa funzione, quella di conservare le tabulae, ovvero l’aerarium populi Romani o aerarium Saturni (Mommsen 1858). Inoltre se l’iscrizione si fosse riferita a queste tabulae, si potrebbe giustamente pensare che fosse nelle vicinanze delle favissae. Su questo dibattito nel tempo si è andato formando l’insieme di proposte di identificazione, su dove fosse il Tabularium e su cosa ci fosse al di sopra della substructio.
La seconda iscrizione a noi nota è ancora conservata, ma non menziona la substructio, né tanto meno il Tabularium; essa fu ritrovata a metà Ottocento e rimessa in opera da Canina, dove egli riteneva che dovesse stare, ovvero sulla prima piattabanda del corridoio delle stanze nord-orientali, su tre blocchi di tufo rosso, come si è visto prima.
A questi documenti già noti si deve poi aggiungere un terzo, inedito fino al 1999 quando venne riscoperto tra i manoscritti di Emilio Sarti, conservati nell’Archivio Capitolini e relativi agli anni 1833-1842 (Mura Sommella 1999). Il testo consiste in poche lettere di un’iscrizione su cinque righe: - - -]us/ - - -]o/ - - -]las/ - - -]m/ - - -]unt. Sarti specificò il suo orientamento verso il Foro, sul blocco d’imposta della stessa piattabanda dove è presente l’iscrizione di Canina, solamente sul lato opposto (Fig. 11). Ad oggi questa iscrizione non è più visibile poiché probabilmente il blocco si è rovinato a tal punto da far scomparire le lettere. Secondo Mura Sommella questa iscrizione, collocata sulla prima piattabanda del corridoio di accesso alle stanze nord-orientali, si troverebbe ‘nel punto di massima visibilità per coloro che provenendo dal Foro Romano, attraverso l’accesso che conduceva al corridoio del primo livello della substructio, raggiungevano gli ambienti di NE, salendo per la relativa rampa di raccordo interna’.
Fig. 11 - Disegno di Emiliano Sarti della terza iscrizione, oggi scomparsa, posta sul lato opposto alla prima piattabanda rispetto l’iscrizione trovata dal Canina, oggi scomparsa; lo schizzo è conservato nell’Archivio Capitolino (Mura Sommella 1999, p. 313, fig. 5).
Dovendo basare ogni interpretazione esclusivamente sul disegno di Sarti, ci si può chiedere se si tratti realmente di un’iscrizione di cinque righe o se queste fossero in realtà sei.
Guardando il disegno si può notare come la distanza delle righe tra ]las e ]m sia maggiore rispetto alla distanza di tutte le altre righe tra loro, facendo così pensare che in realtà questa fosse su sei righe e la quarta mancherebbe poiché le parole su questa riga erano più corte. Così facendo l’iscrizione verrebbe - - -]us/ - - -]o/ - - -]las/ [- - -]/ - - -]m/ - - -]unt (Fig. 12).
Fig. 12 - Ipotesi integrative dell’iscrizione, secondo l’idea che questa sia sviluppata su 6 righe; in in rosso le ipotesi della Mazzei (2009), in blu l’ipotesi di Tucci (2014).
Le lettere della riga finale indicherebbero la terminazione di un verbo alla terza persona plurale, il quale si riferirebbe ai soggetti i cui nomi sarebbero stati indicati nelle prime righe, o solamente nella prima. La ]m finale della quinta riga, secondo la Mazzei (2009), potrebbe riferirsi ad un termine come tabularium, [ad tabulariu]m per esempio, quanto ad una specificazione come [legu]m, forse. Questa sua seconda ipotesi necessiterebbe di verifiche attraverso il confronto con altri testi epigrafici comparabili, dal momento che ‘si avrebbe in questo caso un singolare riferimento al contenuto dell’edificio e non alle sue parti strutturali, come invece nel caso dell’epigrafe di Catulo perduta e come nella maggior parte delle epigrafi che sono incise sulle parti architettoniche degli edifici pubblici’ (Mazzei 2009).
Le terminazione della terza riga ]las farebbe pensare che si tratti di un accusativo plurale femminile e Mazzei ricondurrebbe il tutto a due ipotesi. La prima è che si tratti del termine tabu]las, dal momento che questo termine sarebbe utilizzato nella terminologia ufficiale tardo repubblicana, riflettendosi anche nelle fonti letterarie, in riferimento agli atti pubblici che si depositavano nell’aerarium. Si è constatato che la parola tabulas compare solo in tre epigrafi di Roma, tutte relative ad atti pubblici (CIL I,583; CIL I, 585; CIL VI, 2086).
La seconda ipotesi di Mazzei (2009) è che questa terminazione si riferisca ad una parte strutturale dell’edificio, come sarebbe più frequentemente attestato nelle iscrizioni apposte su edifici o parti di essi. Questa teoria ha suggerito la possibilità della parola fistu]las, in base al fatto che il restauro catuliano del Campidoglio avrebbe comportato anche il ripristino dell’aqua Marcia, tanto più che le fistule dell’acquedotto che riforniva il colle capitolino erano state tagliate pochi anni prima, nel 100 a.C., durante l’episodio dell’assedio da parte di Mario ai tribuni Glaucia e Saturnino che si erano asserragliati sull’Arce (De vir. Ill., 63. 10). Il ripristino di queste fistule non doveva rivestire soltanto un significato utilitaristico, per un partigiano di Silla come lo era stato Catulo, ma doveva anche caricarsi di valori ideologici, così che un’epigrafe poteva apparire necessaria per tale ripristino. Il termine fistulas compare in otto epigrafi sparse per i territori romani relative a costruzioni o rifacimenti di opere pubbliche (CIL II, 3280; CIL V, 7250; CIL IX, 4130; CIL IX, 5652; CIL X, 1885; CIL X, 5807; CIL XIV, 2121).
Alla luce dei confronti con queste epigrafi Mazzei (2009) sostiene che si potrebbe pensare ad un’integrazione della penultima riga come aqua]m, e dell’ultima riga come restituer]unt.
Un’altra interpretazione, proposta da Tucci (2014), prende in considerazione il fatto che nella prima stanza nord-orientale, da dove si poteva leggere questa iscrizione, era presente una rampa di scale che portava al livello superiore (i gradini ricordati da Delbrüeck), e quindi che ]las invece di essere la terminazione di tabulas si riferirebbe ai gradini della scala composta da due rampe separate: sca]las. Il nome in nominativo, la terminazione ]us della prima riga, potrebbe essere il nome dell’architetto di Catulo, Lucius Cornelius, che è menzionato in un’iscrizione proveniente dalla via Prenestina, ma dal 1960 conservata nel cortile dell’ospedale Fatebenefratelli sull’isola Tiberina (CIL VI, 40910).
Per la terminazione dell’ultima riga, la desinenza di un verbo alla terza persona plurale, Tucci ipotizza che si tratti di Catulo e del suo architetto, oppure che si riferisca a Catulo ed all’altro console dell’anno 78 a.C., Marcus Aemilius Lepidus. Tuttavia, per vagliare ulteriori ipotesi, potrebbe esserci un riferimento al corridoio ed alla scala menzionata precedentemente ‘[…] scalas quae […] ad tabularium duc]unt’ (Tucci 2014) .
Queste proposte di integrazione della terza epigrafe richiamerebbero comunque un problema che è rimasto sullo sfondo delle varie ricerche effettuate sul monumento, ovvero quello delle individuazioni delle funzioni svolte dal complesso del Tabularium, o per meglio dire le destinazioni assegnate alle diverse parti di cui esso era costituito, tanto quelle superstiti, quanto quelle scomparse. La presenza delle prime due epigrafi integrabili tra loro e della terza, la quale è completamente differente, renderebbe manifesto il fatto che queste si riferirebbero a contesti diversi tra loro: le prime due epigrafi avrebbero una connotazione indicativa, ovvero riporterebbero il nome del magistrato che ha curato e verificato la costruzione e le parti realizzate; la terza epigrafe al contrario avrebbe una funzione di informazione interna, probabilmente indicando la divisione degli spazi e delle funzioni.
Ritornando sulla prima epigrafe, avendo appurato che il termine substructio si deve riferire alla sostruzione che consente l’installazione del complesso sul clivo del Campidoglio, sorge qui la problematica riguardante il termine tabularium. Su tale termine si è formato un dossier composto, oltre dall'iscrizione di Catulo riportata dal Signorili e dal Poggio, da varie epigrafi provenienti dal territorio italico e da alcune province dell’impero romano, datate in epoche differenti, ma che potrebbero servire per realizzare un confronto.
Questo termine viene sempre messo in relazione ad una serie di edifici, come ad esempio a Castrum Novum in Etruria dove Lucio Ateio Capito costruì curiam, tabularium, scaenarium, realizzati con denaro e su terreno privati (CIL XI, 3483).
Da ambito coloniario provinciale provengono due epigrafi di Munigua (CIL 2, 4, 1076), odierna Mulva in Baetica, che commemorano l’operato di un Lucio Valerio Firmo, duovir per la seconda volta, che dedicò un complesso di edifici pubblici (un tempio, la piazza del Foro, un porticato, un’esedra ed un tabularium) nel centro cittadino, probabilmente coordinati architettonicamente tra loro.
Ed ancora, l’iscrizione incisa su un architrave dalla città di Gales (CIL VIII, 757), odierna Djebel Mansour, in Africa proconsularis, la quale reca una dedica agli imperatori ed alla casa imperiale, riporta ancora il tabularium associato ad altri edifici, quali un’aedes curialis e ad un ponderarium.
Per quanto riguarda le fonti letterarie, queste non si riferiscono mai esplicitamente al Tbularium, ma le informazioni bisogna desumerle da varie opere. Grazie a Suetonio (Sue., Vesp., 8. 5) siamo a conoscenza della presenza di un edificio con funzione di archivio sul Campidoglio. Questo fatto si pone dopo il rovinoso incendio del Campidoglio nel 69 d.C., verificatosi nell’assalto dei vitelliani alle truppe di Flavio Sabino che comportò la distruzione di migliaia di documenti pubblici, per Suetonio tria milia; dopo questo evento l’imperatore Vespasiano diede inizio alla ricostituzione di questo patrimonio documentario, costituendo anche uno strumento giuridico-istituzionale reso necessario per giustificare la restitutio Capitolii dei flavi, e che comporterà la ricostruzione ab imis del tempio di Giove Capitolino (Tac. Hist. 4.53).
L’opera di ripristino venne condotta ricercando le copie di tali documenti in ogni parte del mondo romani, undique investigatis exemplaribus. Questo lavoro però non sembra essere stato effettuato solo per quei documenti di valenza pubblica, né soltanto per quelli distrutti nell’incendio. Infatti, un passo tacitiano (Tac. Hist. 4.9), relativo ad un’iniziativa di Domiziano, quando egli era ancora rappresentante del padre a Roma in sua assenza, la nomina di una commissione, con membri estratti a sorte, che si sarebbe occupata di acquisire e di affiggere, noscerent figerentque, anche quegli aera legum vetustate dilapsa, testi legislativi di vario tipo rovinati dal tempo iscritti su tavole di bronzo, nonché di ricopiare, o ripristinare, fastos adulatione temporum foedatos, sottintendendo a spese pubbliche (Mazzei 2009).
Questo passo non confermerebbe però la presenza del Tabularium sul colle, bensì ci informerebbe solo che ne era presente uno sul Campidoglio. Tuttavia questa prova è stata ritenuta sufficiente per confermare l’identificazione del complesso catuliano con certezza.
Secondo lo studio condotto dalla Mazzei, nelle fonti letterarie al termine tabularium viene aggiunto l’aggettivo publicum, per specificarne l’ambito, solamente dall’età imperiale avanzata, un’epoca a cui risalirebbero due testi in cui è presente l’unione di questi termini, che aiuterebbero a comprendere le ‘possibili denominazioni alternative nella definizione dello stesso oggetto’. Il primo testo è tratto dalla Historia Augusta relativa all’epoca di Marco Aurelio (Historia Augusta, vita Marci, 9), mentre il secondo testo è di Apuleio (Apuleio, Apologia, 89). In entrambi i casi ci si riferirebbe ad una stessa funzione del tabularium publicum, ovvero quella di conservare un’anagrafe degli ingenui, dei figli dei cittadini romani, e che tale funzione sarebbe la stessa identificata come propria dei populi tabularia da Servio nel commento all’opera di Virgilio (Servio, Commentarii in Vergilii Georgica, 2. 502).
Se è vero che Servio parla di actus publici in genere, è anche vero che subito dopo si riferisca la stessa definizione di populi tabularium al luogo istituzionale, l’aerarium di Roma, che viene identificato con il Tempio di Saturno, a cui viene attribuita la stessa funzione che anche la Historia Augusta, nella vita Marci, gli attribuirebbe, cioè quella di anagrafe per l’Urbe. Oltre al’elemento che indica una corrispondenza tra tabularium ed aerarium, in queste fonti è da notare come la funzione che appare prevalente sia quella di anagrafe, la quale può essere il risultato di una diminuzione di funzioni del tabularium publicum, verificatasi in età imperiale (Mazzei 2009).
Cicerone, nei suoi scritti, si riferisce a dei tabularia ma, come precedentemente, inserendoli in avvenimenti disastrosi svoltisi durante la guerra sociale ed il suo residuo delle guerre civili. I due passi di Cicerone si riferirebbero uno all’incendio del tabularium capitolino (Cic., de nat. deo., 3. 30. 74), l’altro all’incendio del tabularium di Heraclea (Cicerone, pro Archia, 8). Mazzei riporta inoltre che se nel primo passo Cicerone usa soltanto il termine tabularium, senza ulteriori specificazioni, nel secondo passo, accanto al termine tabularium compaiono le tabulae publicae che vi erano contenute, e che in seguito presteranno l’aggettivo anche al luogo che le contiene, quando, in età imperiale, apparirà anche un tabularium Caesaris, da cui si dovrà distinguere il tabularium publicum.
Importante è quindi capire cosa siano queste tabulae publicae, così da poter ipotizzare la loro gestione da parte delle e persone preposte.
Le tabulae sono supporti dove viene scritto, inciso o dipinto sopra qualcosa. Se esposte in pubblico potevano essere di bronzo, mentre quelle d’archivio, che venivano conservate dentro degli armadi, potevano essere su pergamena, tela o papiro (Rodriguez-Almeida 2002). Una definizione di Seneca (Seneca, De brevitate vitae, 13. 4) trova riscontro: per la tarda repubblica nel passo di Cicerone (Cic. pro Ros. 7); per l’inizio del II secolo a.C. nel passo di Catone (Catone, in Fronto., ep. ad Antonin. Imp., 1.2); per l’età imperiale in un documento epigrafico del 69 d.C. (CIL X, 7852) che farebbe riferimento ad un atto registrato su una tabula numerata, in quanto facente parte di un codex ansatus, e provvista di vari capitoli, o paragrafi, a loro volta numerati. Il testo dell’epigrafe, già dalla presenza dello scriba quaestorio, che in quest’epoca è funzione esclusivamente urbana, rimanderebbe ad un archivio localizzato a Roma, probabilmente proprio al tabularium publicum, dove sono depositati, in questo caso, gli atti di un proconsole.
In vista della loro archiviazione, le tabulae contenenti registrazioni di vario tipo venivano rilegate in codices e così archiviate già da epoche precedenti: questo corrisponderebbe a quanto è affermato da Plinio, quando si riferisce all’archiviazione privata nei tablina (Pli. Nat. Hist. 35.7).
Parlando ora dei magistrati preposti alla conservazione, citando da De Martino sulle competenze dei questori urbani riguardo la custodia delle leggi in età repubblicana, essi ‘avevano la cura e la sorveglianza dell’aerarium di cui custodivano le chiavi e le cose in esso conservate, cioè il tesoro dello Stato, le insegne militari, i pubblici documenti’ (De Martino 1973), tornando così ad unire l’aerarium, i questori e i documenti, tabulae o codici.
In questa sede però non ci si dilungherà oltre su questa tematica, poiché il tempo a disposizione non consentirebbe un’esaustiva argomentazione un tema così complesso.
Da quanto risulta dalle riflessioni fatte, col nome Tabularium non viene chiamato un edificio singolo, bensì un qualcosa legato ad altri edifici, a cui esso era funzionale. Non è possibile al momento fornire informazioni riguardanti una tipologia architettonica ad esso riferibile avendo potuto osservare dalle epigrafi provinciali come questo edificio non abbia una funzionalità a sé stante. Per poter almeno ipotizzare una sua tipologia architettonica sarebbe funzionale la creazione di un dossier in cui venissero analizzati tutti i contesti archeologici in cui questo edificio potrebbe essere posto, tenendo però presente la particolarità della posizione all’interno Roma. Essendo esso la sede di un archivio sottoposto ad una carica magistratuale di Roma, era strettamente legato ad un culto, in questo caso quello di Saturno.
Riprendendo la teoria di Delbrüeck, probabilmente il Tabularium in origine era ospitato nel tempio, ma col tempo e le accresciute funzioni portarono alla sua divisione. Se si considera infatti anche la separazione dell’aerarium come edificio distinto, si comprende come si sia creato nel tempo un processo di estensione e di articolazione della società romana, di cui il Tabularium è solo una dimostrazione.
Si auspica che nel prossimo futuro vengano condotte nuove indagini, ognuna seguendo uno dei vari filoni di ricerca, per poter arrivare ad un aggiornamento della documentazione ed un’analisi complessiva del complesso.
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