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Conference proceedings - “Incontri di Archeologia - Studenti Sapienza", Atti delle Giornate del 27 aprile - 12 e 24 maggio 2018
 
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Italian 
 
ABSTRACT 
 
This paper focuses on the pomerium, the sacral border of Rome, and its enlargements during the imperial time. The author argues that the hypothesis of a ius proferendi pomerii, meaning the right to expand the pomerium in case of a territorial conquest, is due to a misunderstanding in the interpretation of the Claudian enlargement.
The latter should rather be understood as an act of imperial propaganda that combined references to the Etruscan past of the city and the glorification of Claudius’ citizenship policy and military campaign in Britain. Therefore, the article pleads for a shift of perspectives, away from asking how expansions of the pomerium were legitimate towards scrutinizing the reason and meaning behind each enlargement.
 

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INTRODUZIONE

Gentibus est aliis tellus data limine certo: Romanae spatium est urbis et orbis idem. Questa citazione di Ovidio (fast. II, 683-684), portatrice di un forte messaggio ideologico che identifica l’Impero romano come un impero che comprenda tutta l’ecumene, contiene alcune parole chiave della concezione romana dello spazio (per quest’ultima, si veda ad esempio Gros 2007). Innanzitutto, il limen certus è qualcosa che concerne le popolazioni altre, mentre lo spazio dell’impero è destinato a coincidere con tutto il mondo. In secondo luogo, l’orbis è da identificarsi con la urbs, quindi con la città di Roma stessa, come se questa contenesse già il mondo in piccolo, essendone la capitale.

Nonostante il termine urbs sia stato spesso impiegato come sinonimo per la città di Roma, un’analisi attenta delle fonti (es. Gell. XIII, 14; Liv. V, 52, 2) rivela come in realtà definisca solo una parte della città, ovvero, il suo cuore più sacro, uno spazio delimitato e inaugurato, sancito da un confine preciso: il pomerio. D’altronde, il fatto che sia proprio questo spazio a poter rappresentare la città stessa e, seguendo le parole di Ovidio, il mondo intero, ci fa capire il suo carattere eccezionale, che di conseguenza doveva rivestire anche il suo confine.

L’importanza dell’argomento pomerio, ma anche la sua particolare difficoltà, sono d’altra parte desumibili dalla mole di contributi che lo riguardano. Dai tempi di Theodor Mommsen, la ricerca si è concentrata su più questioni, quasi nessuna delle quali sembra essere giunta a una conclusione definitiva. I primi contributi hanno riguardato la “forma” del pomerio, inteso come linea dietro o di fronte le mura, oppure come striscia di terreno che comprendesse le mura al suo interno (per il primo dibattito sul pomerio si vedano le posizioni riassunte in Mommsen 1876).

A questi si è aggiunta la questione relativa all’etimologia del nome pomerium (Antaja 1980; Milani 1987; Giardina 2000: 29), dalla quale ha preso spunto il dibattito sull’origine latina (Citarella 1980: 401-405; Andreussi 1988: 221-2; 1999: 98-99) o etrusca (Magdelain 1976: 161-168; Sordi 1987: 203; Colonna 2004: 305-306) del confine. A questo proposito, una terza ipotesi ha interpretato il pomerio all’interno del mito di fondazione come una proiezione nel passato di una pratica che gli stessi Romani operavano nella fondazione delle loro colonie (Gros 2007: 97-8). Inoltre, data l’accezione fortemente religiosa del pomerio come delimitazione di uno spazio inaugurato, si è discusso circa la sua valenza di confine rispetto ad alcune tipologie di culti, in particolare di divinità straniere o connesse alla sfera guerriera (tra i numerosi contributi, si veda Karlowa 1896: 52-53; Schilling 1949: 27-35; Catalano 1978: 481; Radke 1980: 27; Ziolkoswski 1992: 265-277; Sandberg 2009: 149; Orlin 2002).

Tuttavia, la questione maggiormente dibattuta negli interventi più recenti (Carlà 2015; Maccari 2015, 2016, 2017; Mignone 2016) e che sarà oggetto anche di questo contributo, è quella relativa a quegli ampliamenti pomeriali avvenuti sicuramente in età imperiale e di cui le fonti letterarie citano dei precedenti in epoca regia e repubblicana. La discussione in questo caso riguarda sia gli ampliamenti effettivamente avvenuti, sia la legittimazione e le motivazioni che sottostavano ai singoli ampliamenti.

È evidente che una tale varietà di opinioni su aspetti così diversi e allo stesso tempo così fondamentali si debba almeno in parte a un quadro delle fonti che lascia ampio spazio all’interpretazione. Il primo autore che cita il pomerio è Varrone, che a sua volta riferisce l’opinione di Catone (ling. V, 143). I successivi autori che si interessano del pomerio scrivono dopo il I secolo a.C., e nessuno di loro ci dà una definizione univoca del confine. D’altra parte, va detto che una ricerca fin troppo specifica sul pomerio, che spesso ha fatto riferimento solamente ad alcune delle fonti che lo riguardano, ha mancato di considerare il confine in tutti i suoi aspetti, svincolandolo dalla sua appartenenza a un sistema di confini, all’interno del quale esso doveva svolgere una funzione ben precisa. In questo senso hanno sicuramente giovato quei contributi che si sono occupati dei confini di Roma considerandoli nei loro rapporti reciproci (Frézouls 1987; Toulze 1993; Panciera 1999; Guilhembet 2006). Tuttavia, il pomerio è senz’altro il confine che presenta gli aspetti più complessi, anche perché la sua presenza è attestata dal mito di fondazione fino alla città tardo-antica. Pensare di potergli attribuire un unico significato per tutto questo arco di tempo sembra perlomeno difficile.

Questo articolo, come accennato, vuole essere un contributo alla ricerca relativa agli ampliamenti del pomerio. In particolare, si cercherà di mettere in discussione l’esistenza di uno ius proferendi pomerii, ovvero di una legge che regolamentasse il diritto di ampliare il pomerio a seguito di avvenute conquiste territoriali. Si cercherà di dimostrare che il legame tra ampliamento pomeriale e conquista territoriale è un risultato dell’ampliamento di Claudio, il quale è stato artefice innanzitutto di un’azione propagandistica, servendosi del confine come di un luogo di rappresentazione del potere imperiale e rifacendosi a un modello preciso, il re etrusco Servio Tullio. Secondo la tesi qui proposta, una nuova lettura dell’ampliamento di Claudio e della sua risonanza nelle fonti può in parte spiegare alcune contraddizioni presenti nelle testimonianze degli autori sul pomerio.

Per entrare nel merito della questione, si ritiene necessario compiere un passo indietro e considerare il pomerio innanzitutto nel suo carattere di confine all’interno del sistema dei confini di Roma, analizzando il suo ruolo particolare e il significato che gli attribuiscono le fonti. È infatti importante definire che cosa esattamente venisse ampliato, prima di dire se questo ampliamento fosse legittimo o meno. Per questo motivo, si cercherà di delineare il cambiamento della valenza del pomerio nel passaggio dalla tarda Repubblica alla prima età imperiale. Quindi, si svolgerà un’analisi delle fonti letterarie ed epigrafiche che attestano gli ampliamenti pomeriali, cercando di evidenziare le contraddizioni che si presentano a una prima lettura e il ruolo cruciale che sembra rivestire l’ampliamento di Claudio all’interno della tradizione letteraria. Infine, ci si concentrerà su quest’ultimo intervento, cercando di capirne il contesto e le motivazioni. L’ambizione di questo contributo non è certo quella di dare delle risposte esaustive alla questione degli ampliamenti, quanto piuttosto di proporre una nuova lettura delle fonti e di evidenziare alcune domande che dovranno essere affrontate in futuro.

 

IL POMERIO COME CONFINE DI ROMA

Nella concezione romana dello spazio, il confine aveva una valenza religiosa oltre che politica, tanto che al dio competente in materia, Terminus, era dedicato un sacello all’interno del Tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio (Piccaluga 1974). Tra le numerose versioni del mito di fondazione di Roma, molte narrano la delimitazione del suolo cittadino attraverso almeno due confini: quello delle mura e quello del pomerio (Varr. ling. V, 143; Tac. Ann. XII, 24; Plut. Rom. 11). Senza entrare nel merito di quanto le fonti antiquarie possano rappresentare testimonianze attendibili di fatti avvenuti molti secoli prima, l’importante è considerare che nella concezione di questi autori non si potesse immaginare la città di Roma definita da un unico confine. Il motivo sta nelle differenti valenze attribuite alle singole delimitazioni, che avevano innanzitutto un carattere diverso all’interno della disciplina religiosa: infatti, mentre le mura erano sanctae, il pomerio era sacrum. Le res sacrae si differenziavano dalle res profanae per il loro carattere prettamente religioso, essendo “consacrate” a una o più divinità. Le res sanctae invece possono considerarsi una categoria intermedia tra le due citate prima: se si violavano le mura, si incappava in una sanctio, ovvero in una sanzione penale (Giardina 2000: 29; De Sanctis 2015: 140, 161). L’esempio per eccellenza è l’uccisione di Remo per mano di Romolo dopo che, infrangendo il divieto posto dal gemello, aveva oltrepassato il muro “embrionale” della città con un salto (De Sanctis 2015). 

Pensando in termini meno astratti, si possono considerare le mura come il confine “visibile” della città, che la difendeva da pericoli altrettanto “visibili” (ovvero, da eserciti nemici), mentre il pomerio, come confine “invisibile”, delimitato solamente da cippi posti a una certa distanza gli uni dagli altri, difendeva la città da tutti i pericoli “invisibili”, intesi come gli elementi che potessero intaccare il carattere “sacro” del territorio racchiuso al suo interno. La sacralità di quest’ultimo era dovuta alla sua condizione di territorio inaugurato, delimitato quindi con riti specifici che non erano stati impiegati al momento della delimitazione delle mura (De Sanctis 2015: 133). Gli elementi ritenuti “contaminanti” recavano il rischio di disturbare l’equilibrio vitale della città: sono da considerare innanzitutto la guerra e la morte. Per questo motivo, nello spazio compreso all’interno del pomerio erano vietate le sepolture (Cic. leg. II, 23, 58; Serv. aen. XI, 206; Serv. aen. VI, 152) e le attività militari - ad esempio, i comitia curiata dovevano tenersi all’esterno del circuito pomeriale perché prevedevano il raduno di cittadini in armi (Liv. V, 52, 15-16; Gell. XV, 27, 5; cfr. Sandberg 2001: 119-131). Questo spazio intrapomeriale è da identificarsi con la urbs: il pomerio è infatti definito come il confine degli auspici urbani (Varr. ling. V, 143; Gell. XIII, 14; Serv. aen. VI, 197).

Ogni carica magistratuale a Roma era legata all’assunzione di particolari auspici, ovvero alla consultazione della divinità riguardo al compito che si stava assumendo, la quale doveva ovviamente risultare favorevole (Dion. Hal. ant. II, 6; cfr. Catalano 1960: 481; Dalla Rosa 2003). Gli auspici presi avevano però una validità limitata in termini spaziali, sanciti per l’appunto dal pomerio. Ciò significa che una volta varcato il confine, gli auspici e il potere che conferivano alla carica perdevano la loro validità (Cic. nat. deor. II, 11).

Questa distinzione ha una rilevanza particolare quando si parla di un potere straordinario che poteva essere conferito anche a privati cittadini romani: l’imperium, che si traduce generalmente con “potere militare”. L’imperium era legato ad auspici extraurbani ed era dunque valido solamente al di fuori del pomerio. Oltre a poter esercitare il comando sulle truppe militari, chi era incaricato di imperium poteva decidere della vita e della morte di chi gli era sottoposto (Mommsen 1887; Magdelain 1976; Richardson 1991; Drogula 2015). A questo proposito, conosciamo un altro confine di Roma, il I miglio, che definiva all’esterno del pomerio una specie di “zona grigia”, in cui era valido l’imperium ma anche il diritto di provocatio, ovvero di appello contro una condanna a morte (Liv. III, 20, 7). 

Il fatto che l’imperium non valesse all’interno del pomerio aveva sì a che fare con il carattere “impuro” delle attività militari, costituiva però anche una misura di precauzione per la stabilità dello Stato repubblicano. Il detentore dell’imperium disponeva infatti di un potere eccezionale, supportato dalle truppe che erano sottoposte al suo comando. Senza limiti territoriali, avrebbe potuto imporsi facilmente sui restanti poteri presenti in città, rovesciando di fatto la costituzione repubblicana (cosa che avvenne a partire dall’età sillana). Le occasioni in cui l’imperium valeva anche all’interno dell’urbs erano dunque altrettanto eccezionali: il trionfo da una parte, la dittatura e il senatus consultum ultimum dall’altra. In occasione del trionfo, il generale vittorioso doveva aspettare al di fuori del pomerio l’autorizzazione del senato per i festeggiamenti (Liv. XXVI, 21, 1-5; Liv. XXVIII, 9, 5; Liv. XXXIII, 22, 1-2; Liv. XXXIX, 29, 4-7; cfr. Koortbojian 2010). Senza quest’ultima, il superamento del confine avrebbe comportato automaticamente il decadere del suo imperium. Una volta autorizzato (e le fonti ci tramandano casi in cui la decisione del senato si fece attendere anche per anni; cfr. Sall. Cat. XXX, 3-4), il generale poteva sfilare lungo il percorso trionfale con le sue truppe in armi. Al termine della processione, decadeva anche il suo imperium. Inoltre, in caso di grave emergenza per lo Stato romano singoli personaggi detentori di imperium (il dittatore o un magistrato incaricato) potevano esercitare il loro potere anche all’interno della città, seppure per un tempo limitato (cfr. Drogula 2007: 445-451).

Con l’espansione di Roma nel Mediterraneo in seguito alle guerre di conquista e con la progressiva militarizzazione della competizione politica in seguito alle guerre civili, qualcosa evidentemente cambiò nel regolamento appena descritto. Autori come Cicerone e Dionigi di Alicarnasso lamentano una generale decadenza del rispetto delle regole degli avi, che dovette investire anche la presa degli auspici, a volte addirittura falsificati (Dion. Hal. ant. II, 6; Cic. nat. deor. II, 11; Cic. divin. I, 33; Cic. divin. II, 74-77). In effetti, la regola secondo la quale un generale prima della partenza della guerra doveva prendere gli auspici in Campidoglio apparteneva a un tempo in cui i campi di battaglia di Roma si limitavano al territorio italico (Liv. XXII, 1, 7; Liv. XLI, 10, 5-13; Liv. XLV, 39, 11; Cass. Dio. XXXIX, 39, 6-7.). Ora che la guerra si conduceva in luoghi assai più remoti, non era possibile garantire che ogni nuovo generale nominato riuscisse a tornare a Roma per prendere gli auspici. Tuttavia, questo non comportò sempre un abbandono delle regole tradizionali, in alcuni casi anzi si cercò di adattarle alla situazione vigente, ad esempio, scegliendo un terreno vicino al campo di battaglia come templum in cui prendere gli auspici (Serv. aen. II, 178).

L’altro aspetto che subì un profondo mutamento riguardò la presenza militare all’interno della città. Uno spartiacque è sancito dall’ingresso a Roma delle truppe sillane nell’88 a.C. che comportò la fuga di Mario e dei suoi seguaci. Mai prima d’allora un generale romano aveva osato violare il confine del pomerio varcandolo con le sue truppe, e non è un caso che a Silla, come vedremo, è stato attribuito il primo ampliamento del pomerio dopo l’età regia. La successiva dittatura di Silla, la prima dopo 100 anni, rafforzò la presenza militare in città. Da questo momento, la lotta per il potere a Roma passava attraverso il comando militare. Ciononostante, sono ancora attestati casi in cui generali come Cesare e Pompeo di rientro dalle loro campagne abbiano radunato assemblee popolari al di fuori del pomerio, memori del fatto che sorpassarlo avrebbe comportato la perdita del loro imperium (per Pompeo cfr. Cass. Dio. XXXIX, 63, 4; XL, 50, 2; XLI, 3, 3; per Cesare cfr. Cass. Dio. XLI, 15, 2; XLI, 16, 1; per il giovane Ottaviano cfr. Cass. Dio. XLIX, 15, 3)

La svolta definitiva per sigillare l’importanza del pomerio come confine dell’imperium avvenne con il principato di Augusto. Nel 30 a.C. gli fu concessa la tribunicia potestas a vita (Cass. Dio. LI, 19, 6), una carica precedentemente legata agli auspici urbani. Nel 23 a.C. gli fu attribuito l’imperium proconsulare a vita (Cass. Dio. LIII, 32, 5), fino ad allora valido solamente all’esterno del pomerio. La definizione “a vita” dei due poteri, che quindi non erano più legati a una dimensione territoriale, comportò di fatto la fine del pomerio nella sua concezione repubblicana.

Si apre a questo punto uno scenario interessante. Proprio a partire dal momento in cui il pomerio sembra perdere la sua valenza originaria, le fonti collocano gli ampliamenti del confine. Da una parte, questo può apparire logico, considerando la sacralità che investiva il pomerio e il suo ruolo di confine fondamentale durante l’epoca repubblicana. In assenza di un re, concedere il permesso di mettere mano sul confine religioso e militare della città a singole persone sembra un’eventualità poco probabile. D’altro canto, è importante constatare che il confine ampliato non potesse avere più la stessa valenza che in passato e che dovesse quindi necessariamente acquisire un nuovo significato.

 

GLI AMPLIAMENTI DEL POMERIO: LE FONTI

Le fonti che riguardano gli ampliamenti del pomerio sono di carattere epigrafico e letterario. La prima fonte che ci parla di un ampliamento è Tito Livio riguardo all’intervento di Servio Tullio (Liv. I, 44, 3). Gli autori seguenti riferiscono invece di altri ampliamenti, ma non sono d’accordo sui nomi di chi li avesse effettuati. In ordine cronologico: Seneca, parlando dell’ampliamento di Claudio, cita come unico predecessore Silla (Sen. brev. 13, 8); Tacito, sempre riferendosi all’intervento di Claudio, aggiunge al nome di Silla quello di Augusto (Tac. ann. XII, 23-24); Aulo Gellio, la cui fonte è l’augure Messalla Corvino, oltre a Claudio, ricorda i nomi di Servio Tullio, Silla e Cesare (divus Iulius) (Gell. XIII, 14); Cassio Dione parlando dell’ampliamento di Cesare ricorda il suo modello Silla (Cass. Dio. XLIII, 50, 1), e altrove riferisce anche di un ampliamento da parte di Augusto (Cass. Dio. LV, 6, 6); infine, l’autore dell’Historia Augusta si differenzia da tutti gli elenchi precedenti e nel passo relativo all’ampliamento del pomerio da parte di Aureliano ricorda i predecessori Augusto, Nerone e Traiano (Vit. Aur. 21, 9-11). 

È evidente come nessun autore riprenda un elenco di nomi da un altro, essendo tutti differenti tra loro. È anche interessante notare che il nome di Augusto compaia per la prima volta con Tacito, e quello di Cesare con Aulio Gellio, quando le fonti cronologicamente più vicine agli eventuali ampliamenti, ovvero Tito Livio e Seneca, non fanno riferimento a nessuno dei due. Allo stesso modo, troviamo i nomi di Nerone e Traiano solo nell’Historia Augusta, e non negli autori che avrebbero potuto essere testimoni dei loro interventi (Seneca, per Nerone; Tacito, per Traiano).

La discordanza più eclatante riguarda però il confronto con le fonti epigrafiche, che pure hanno un grado di attendibilità maggiore rispetto alle fonti letterarie, essendo testimonianze dirette delle azioni di cui riferiscono. Sono conservati i cippi relativi a tre ampliamenti pomeriali: Claudio, Vespasianoe Tito, Adriano (cippi di Claudio in situ: CIL, VI 1231a =EDR104000; CIL, VI 31537a =EDR032554; CIL, VI 37023 =EDR072320; CIL, VI 40852 =EDR093182; CIL, VI 1231b =EDR105762; non in situ: CIL, VI 1231c =EDR105763; CIL, VI 37022b =EDR105769; forse riconoscibili come cippi claudiani: CIL, VI 37024 =EDR105771; CIL, VI 40853 =EDR093183; cippi di Vespasiano e Tito in situ: CIL, VI 1232 =EDR032555; CIL, VI 40854 =EDR093184; non in situ: CIL, VI 31538a =EDR105772, disperso; CIL, VI 31538c =EDR103989; cippi di Adriano in situ: CIL, VI 1233a =EDR032553; CIL, VI 40855 =EDR093185; non in situ: CIL, VI 1233b =EDR128093, disperso; CIL, VI 31539b =EDR12809; disperso; cfr. per la localizazzione dei cippi GUILHEMBET 2006: 120-121). Nel caso dell’intervento adrianeo, come recita l’iscrizione sui cippi, non si tratta di un vero ampliamento, quanto piuttosto del restauro di alcuni cippi flavi in Campo Marzio (cfr. Rodríguez-Almeida 1980: 197-198). Ad ogni modo, del pomerio di Adriano non vi è traccia nelle fonti letterarie, così come mancano i nomi dei due imperatori flavi. L’unico ampliamento attestato a livello epigrafico che trova un rimando anche nelle fonti letterarie è quello di Claudio.

Nonostante già da una superficiale analisi delle fonti emergano le contraddizioni appena citate, la ricerca si è spesso concentrata sulle motivazioni che potessero sottostare all’uno o all’altro ampliamento, piuttosto che cercare di spiegare il quadro problematico che abbiamo delineato (per Silla cfr. Hinard 1994; Giardina 1995; Sordi 1997; per Augusto cfr. Oliver 1932; Taliaferro Boatwright 1986; Ferrary 2001; per Claudio cfr. Rodríguez-Almeida 1980; Park Poe 1984; Taliaferro Boatwright 1984; Chioffi 1993; Giardina 1995; per Vespasiano e Tito cfr. Merlin 1901; Coarelli 1997 e 2009; per Aureliano cfr. Syme 1978; Dmitriev 2004). La questione principale per molti contributi riguarda la legittimazione necessaria agli ampliamenti del pomerio, il cosiddetto ius proferendi pomerii, che avrebbe vincolato l’ampliamento del pomerio alle conquiste territoriali di chi lo volesse ampliare (cfr. Labrousse 1937; Lyasse 2005). 

Il discorso relativo allo ius proferendi pomerii prende spunto da una discussione che trapela dalle stesse fonti letterarie sopra citate, a partire dal testo di Seneca, che confronta la legittimazione dell’ampliamento del pomerio da parte di Silla, ovvero, seguendo un mos apud antiquos, la conquista di territorio italico, con quella di Claudio, ovvero la conquista di territorio provinciale. Torneremo più avanti sull’interpretazione di questo passo. Intanto, ci limitiamo a osservare che nonostante il legame tra ampliamento del pomerio e conquista territoriale venga ripreso dagli autori successivi a Seneca, la tipologia del territorio da conquistare varia a seconda della testimonianza: Tacito indica come presupposto genericamente l’allargamento dell’imperium (protulere imperium); Aulo Gellio parla di un territorio da strappare al nemico (agro de hostibus capto); l’Historia Augusta infine si avvicina a quest’ultima definizione (agri barbarici). Si noti l’assenza in questo elenco di Tito Livio, che collega l’ampliamento del pomerio all’allargamento della cinta muraria (Liv. I, 44, 4), e di Cassio Dione, che invece non entra nel merito ma per il caso di Cesare ricorda come anche in questa azione riprendesse il modello di Silla (Cass. Dio. XLIII, 50, 1).

D’altra parte, la discordanza degli autori si spiega anche considerando la preziosa testimonianza dei cippi pomeriali. Sui cippi di Claudio si legge infatti: auctis populi Romani finibus, pomerium ampliavit terminavitq(ue); la stessa formula si ritrova anche sui cippi flavi. L’iscrizione non parla di nessun territorio conquistato, definisce piuttosto come collegato all’ampliamento del pomerio un aumento dei confini del popolo Romano. Cercheremo di capire più in avanti a cosa si possa riferire questa espressione.

La mancanza di una definizione univoca nelle fonti riguardo alla legittimazione da rispettare in caso di un ampliamento del pomerio può rappresentare un argomento per negare l’esistenza di uno ius proferendi pomerii. A supporto di questa tesi, va osservato che il primo e unico autore a parlare di ius è Aulo Gellio, mentre Seneca cita un mos apud antiquos e Tacito un mos priscus. L’Historia Augusta invece dice che l’ampliamento licet a chi abbia conquistato un territorio barbarico. 

Un’altra fonte fondamentale è la lex de imperio Vespasiani, che dedica un paragrafo anche all’ampliamento del pomerio: ei fines pomerii proferre promovere cum ex re publica / censebit esse liceat uti licuit Ti(berio) Claudio Caesari Aug(usto) Germanico (CIL, VI 930 = EDR103907, rr. 9-10). Il passo non cita nessuno ius, ma usa la stessa espressione che troveremo in seguito nell’Historia Augusta, liceat. Inoltre, anche qui non si fa riferimento a nessun territorio di conquista, piuttosto la condizione posta all’ampliamento è che sia una misura utile alla res publica. Infine, la lex cita come unico precedente l’ampliamento di Claudio.

L’intervento di Claudio sembra dunque svolgere un ruolo fondamentale in tutta la questione relativa agli ampliamenti e all’esistenza o meno dello ius proferendi pomerii. Come abbiamo visto, si tratta dell’unico intervento attestato sia a livello epigrafico che a livello letterario, nonché l’unico citato come precedente nella lex de imperio Vespasiani. È inoltre l’unico che sia ricordato da una fonte letteraria contemporanea (Seneca) e l’unico di cui possiamo dire con certezza quale fosse l’entità dell’ampliamento, con l’inclusione dell’Aventino. Inoltre, è solo dopo l’avvenuto ampliamento di Claudio che riscontriamo nelle fonti quel dibattito relativo ai nomi di chi avesse o meno ampliato il pomerio e secondo quale legittimazione. Infatti, Tito Livio non accenna a uno ius proferendi pomerii quando parla dell’ampliamento di Servio Tullio, e anzi lo considera una conseguenza della costruzione delle mura serviane e quindi dell’accrescimento del territorio cittadino contenuto all’interno del circuito murario. Sembra dunque inevitabile entrare nel merito dell’ampliamento di Claudio, per cercare di fare luce sulla questione degli ampliamenti in generale.

 

SILLA E CLAUDIO

Nel 49 a.C., come testimoniano i cippi rinvenuti, avvenne l’ampliamento del pomerio da parte dell’imperatore Claudio. Riguardo ai nuovi territori cittadini inclusi, non conoscendo l’esatto percorso del pomerio prima dell’età claudiana possiamo dire con certezza solamente dell’Aventino. L’inclusione del colle è oggetto anche del passo del De brevitate vitae di Seneca, l’unica fonte letteraria a noi pervenuta che riferisca di un ampliamento contemporaneo e soprattutto delle reazioni che questo dovette suscitare. Per una maggiore comprensione, riportiamo il testo per esteso: (...) Sed, ut illo revertar, unde decessi, et in eadem materia ostendam supervacuam quorundam diligentiam, idem narrabat, (...) Sullam ultimum Romanorum protulisse pomerium, quod numquam provinciali, sed Italico agro adquisito proferre moris apud antiquos fuit. Hoc scire magis prodest quam Aventinum montem extra pomerium esse, ut ille affirmabat, propter alteram ex duabus causis, aut quod plebs eo secessisset aut quod Remo auspicante illo loco aves non addixissent, alia deinceps innumerabilia, quae aut farta sunt mendaciis aut similia? (Sen. brev. XIII, 8).

A proposito dell’ampliamento del pomerio di Claudio, Seneca cita l’opinione di un anonimo erudito (ille), che ricorda come l’ultimo ampliamento fosse avvenuto con Silla, il quale si sarebbe appellato a una regola comune presso gli antichi (mos apud antiquos), giustificando il suo ampliamento con l’acquisizione di territorio italico, e non provinciale (come invece sembra aver fatto Claudio). Pur citandolo, Seneca giudica essenzialmente inutile l’intervento dell’erudito. Lo fa in maniera più velata, dicendo che conoscere il precedente di Silla potrebbe rivelarsi sempre più utile (hoc scire magis prodest) che conoscere i motivi dell’originaria esclusione dell’Aventino, risalenti a tempi remoti, e quindi, possiamo pensare, ormai obsoleti. E lo fa in maniera più esplicita dicendo che l’erudito racconta molte altre cose “infarcite di menzogne” (farta mendaciis).

Per questo motivo, Andrea Giardina ha considerato questo passo come una difesa da parte di Seneca dell’intervento di Claudio, all’interno di una discussione contemporanea intorno ai motivi legittimi per ampliare il pomerio, che secondo Giardina sarebbe scaturita proprio dall’ampliamento dell’imperatore (Giardina 1995: 136-138). Inoltre, Giardina riconosce in questa discussione lo specchio di una questione più ampia, relativa alla concessione della cittadinanza romana alle classi aristocratiche della Gallia comata, promossa da Claudio in un discorso a noi pervenuto nella cosiddetta tabula claudiana (CIL, XIII 1668; cfr. Tac. ann. XI, 15). La concessione della cittadinanza ai primores galli e l’ampliamento del pomerio sulla base della conquista di territorio provinciale appaiono, secondo Giardina, “come momenti di un unico discorso politico, come applicazioni di una medesima visione del dominio romano” (Giardina 1995: 133). Nonostante l’indubbia brillantezza di questa intuizione, non risolve una questione di fondo: Silla ampliò effettivamente il pomerio, e con la legittimazione di aver conquistato territorio italico?

Secondo Marta Sordi, l’ampliamento del pomerio fu all’inizio collegato con l’allargamento dello spazio civico, così come testimoniato da Livio. Il primo a introdurre la dimensione della conquista del territorio sarebbe stato proprio Silla. Riconoscendo nella lex Valeria, con la quale il popolo romano concesse a Silla l’imperium illimitato, un precursore della lex de imperio Vespasiani cui abbiamo già accennato, diventerebbe comprensibile il suo diritto di ampliare il pomerio. Sarebbe poi stato lo stesso Silla ad assimilare “i diritti del fondatore con i diritti del conquistatore” nel suo atto di allargamento del pomerio, da una parte presentandosi come erede di Romolo, dall’altra assimilando la prolatio pomerii all’integrazione dell’Italia nello Stato romano in seguito alle guerre civili. Il passo di Seneca invece dimostrerebbe che a seguito di questa operazione si sarebbero scritte nuove norme per lo ius proferendi pomerii (Sordi 1997: 205-209).

Anche in questo caso la soluzione proposta presenta alcune problematiche. Innanzitutto, è difficile postulare una nuova regolamentazione che prevedesse un legame tra gli ampliamenti pomeriali e la conquista del territorio italico - questa infatti sarebbe valsa solamente per il pomerio di Silla. Essendo ormai conquistata l’Italia, ciò significherebbe che nessun altro avrebbe potuto ampliare il pomerio. In secondo luogo, risulta che nessun dittatore precedente avesse avuto il diritto di spostare il pomerio, nonostante fosse investito dell’imperium illimitato. Non sembra questa essere una condizione sufficiente per potere intervenire sul confine, che peraltro perde la sua valenza più significativa nel momento eccezionale della dittatura, in cui l’imperium può essere esercitato sia intra che extra pomerium. Infine, nonostante il ruolo eccezionale rivestito da Silla, un suo eventuale ampliamento del pomerio risulterebbe forse un’azione anacronistica, considerando che il confine non aveva completamente perso il suo significato, nonostante fosse stato violato dallo stesso generale, come attestano le fonti precedentemente citate relative ai raduni in armi extrapomeriali di Pompeo, Cesare e Ottaviano.

Che sia avvenuto o meno l’ampliamento di Silla (e si dovrebbe comunque spiegare il silenzio delle fonti sul suo conto fino a Seneca), la contrapposizione tra territorio italico e provinciale posta dal testo di Seneca potrebbe essere interpretata anche in altro modo. Traendo spunto dall’ipotesi di Giardina, si potrebbe pensare che il passo sia in realtà soprattutto un riferimento alla questione della cittadinanza concessa alle élite provinciali. Se Silla infatti aveva allargato la partecipazione al Senato alle élite italiche, sicuramente anche allora andando contro l’opinione dell’aristocrazia romana, Claudio stava facendo lo stesso con i provinciali. La critica della classe senatoria, facendo leva su un mos apud antiquos, ricordava l’antica consanguineità tra Romani e Italici, non percepita invece con le élite della Gallia comata. Seneca paragona questo appellarsi alle tradizioni all’intervento dell’erudito che ricorda i motivi dell’originaria esclusione dell’Aventino dal pomerio. Sicuramente, anche l’inclusione del colle all’interno del nuovo circuito pomeriale aveva destato un certo effetto sull’opinione pubblica romana. Il collegamento tra le due polemiche potrebbe essere però un espediente di Seneca per supportare la decisione di Claudio relativa alla cittadinanza concessa. D’altra parte, il letterato non si espone del tutto parlando in prima persona, ma lasciando trapelare la sua opinione in confronto a quella dell’erudito cui lascia la parola – un erudito che a questo punto sembra rappresentare i critici tra i senatori romani.

 

CLAUDIO E SERVIO TULLIO

Nel discorso tenuto di fronte ai senatori romani oppositori della sua politica di cittadinanza, Claudio ricorda l’apporto degli stranieri alla storia romana, a cominciare dai re: il sabino Numa Pompilio e Tarquinio Prisco, figlio di un padre corinzio e di una madre etrusca. In particolare, Claudio ricorda la figura di Servio Tullio, per il quale cita la vulgata latina e una fonte etrusca che lo ricorda giunto a Roma come sodalis di un certo Celio Vibenna: Servius Tullius, si nostros/ sequimur, captiva natus Ocresia, si Tuscos, Caeli quondam Vi/vennae sodalis fidelissimus omnisque eius casus comes post/quam varia fortuna exactus cum omnibus reliquis Caeliani/ exercitus Etruria excessit, montem Caelium occupavit, et a duce suo/ Caelio ita appellitatus [sic], mutatoque nomine, nam Tusce Mastarna/ ei nomen erat, ita appellatus est ut dixi, et regnum summa cum rei/ publicae utilitate obtenuit (CIL, XIII, 1668, rr. 16-24). Mentre la tradizione latina (nostros) doveva essere nota agli ascoltatori, la fonte etrusca (Tuscos) probabilmente era sconosciuta, motivo per cui Claudio la riferisce per esteso. Sulle origini di Servio Tullio circolavano le leggende più disparate (cfr. Cornell 1995: 130-141), ma la versione riferita da Claudio si conosce solo per questa attestazione: lo stesso Tacito la omette nel suo resoconto del discorso dell’imperatore, per motivi a noi ignoti (Tac. ann. XI, 23). È assai probabile che la storia di Servio Tullio/Mastarna sia frutto di ricerche dello stesso Claudio, che sappiamo essere studioso in particolare della storia e cultura etrusca, nonché autore di un libro sulla storia degli Etruschi (i Thyrrenica) in 20 libri redatti in lingua greca, di cui purtroppo non rimane neanche un estratto (Suet. Cl. XLII, 2). Il suo interesse muoveva forse anche dal suo matrimonio con una donna di origine etrusche, Urgulanilla, ed è assai probabile che Claudio parlasse l’etrusco. L’importanza da lui riconosciuta alla religione etrusca come genitrice di quella romana lo portò inoltre a rinvigorire il collegio degli aruspici, tradizionalmente composto da esponenti etruschi (Tac. ann. XI, 15).

Si può dunque pensare che Claudio, nella sua attività da “etruscologo”, si fosse interessato anche alla storia di Servio Tullio, come dimostra il testo della tabula claudiana. Del resto, durante i suoi studi sicuramente avrà letto l’opera di Tito Livio, che peraltro pare abbia incoraggiato l’imperatore ancora giovane a scrivere una Storia romana (Suet. Cl. XLI, 1). Il passo già citato relativo al pomerio di Servio Tullio nell’ Ab urbe condita recita: Urbs quoque amplificanda visa est. Addit duos colles, Quirinalem Viminalemque; inde deinceps auget Esquilias ibique ipse, ut loco dignitas fieret, habitat. Aggere et fossis et muro circumdat urbem; ita pomerium profert (Liv. I, 44, 3). È interessante notare che l’ampliamento comportasse l’inclusione di due nuovi colli, il Quirinale e il Viminale, mentre non è chiaro che posizione spettasse all’Esquilino. A differenza di Livio, Dionigi di Alicarnasso cita solamente il Viminale e l’Esquilino: con l’aggiunta di questi due colli, Servio Tullio avrebbe aumentato “il perimetro” della città (Dion. Hal. ant. IV, 13, 3). 

Mettendo insieme gli elementi a nostra disposizione, ovvero l’interesse dell’imperatore Claudio per la storia e la religione etrusca, lo studio di fonti relative a Servio Tullio e il ricordo dell’ampliamento del pomerio da parte del re etrusco che riguardò l’inclusione di nuovi colli, è suggestivo pensare che fosse proprio questo, più che la tradizione romulea, il modello per l’ampliamento di Claudio. Va considerata anche una certa propensione dell’imperatore a mettere in pratica i suoi studi: si pensi all’introduzione da lui promossa di tre nuove lettere nell’alfabeto latino, poi rimosse alla sua scomparsa (Tac. ann. XI, 15). 

Ovviamente però, l’ampliamento del più importante confine religioso di Roma non poteva essere motivato dal solo interesse antiquario. È tuttavia plausibile pensare che Claudio potesse intervenire sul pomerio senza il bisogno di una legittimazione, poiché, come abbiamo visto, il confine aveva di fatto perso la sua valenza a partire dall’epoca di Augusto. Se il primo imperatore di Roma poteva certo avere avuto la tentazione di legare il suo nome a un nuovo pomerio, un intervento che avrebbe avuto dei chiari rimandi al fondatore Romolo, allo stesso tempo non sarebbe stato nello stile del princeps, consapevole di dover evitare richiami troppo evidenti con il passato regale. Un altro discorso vale per Claudio, imperatore di una dinastia ormai affermata, che probabilmente promulgò l’ampliamento anche all’interno di una renovatio delle tradizioni etrusche, includendo anch’egli un colle prima escluso, l’Aventino, noto d’altronde per essere un colle “nefasto”, così com’era stato l’Esquilino ai tempi di Servio Tullio (Sen. brev. XIII, 8). La portata ideologica dell’intervento si spiega proprio con l’iscrizione posta da Claudio sui suoi cippi: auctis populi Romani finibus pomerium/ ampliavit terminavit(que)

Come abbiamo accennato all’inizio dell’analisi, i “confini ampliati del popolo romano” sono un’espressione volutamente ambigua, che può intendere sia i confini territoriali dell’impero, com’è stato largamente interpretato finora, sia però i limiti della cittadinanza, estesi da Claudio con la concessione all’élite galliche, nonché il limite stesso del pomerio. Inoltre, è da ricordare che il passo di Tito Livio sull’ampliamento del pomerio di Servio Tullio si inserisce nel racconto del censimento effettuato dal re etrusco (Liv. I, 42, 5; Liv. I, 44, 2.), che avrebbe portato alla divisione della cittadinanza in quattro tribù (Liv. I, 43, 13). Certo Claudio non aveva introdotto una riforma paragonabile con la concessione della cittadinanza a un gruppo ristretto di provinciali, ma non sembra irrealistico che possa essere stato consapevole del richiamo a Servio Tullio, collegando il pomerio all’allargamento della cittadinanza. 

Per quanto riguarda invece il significato di conquista territoriale attribuito all’iscrizione claudiana, è lo stesso imperatore ad averlo suggerito, innalzando probabilmente lungo il tracciato pomeriale, due anni dopo l’ampliamento, un arco di trionfo in ricordo della guerra in Britannia, che interpretato come una vera e propria porta pomerialis (cfr. Rodríguez-Almeida 1979: 200-202). Si è così pensato che fosse proprio quella campagna militare, che concedette a Claudio il titolo di Britannicus, a fornire l’occasione per l’ampliamento del pomerio (Rodrìguez-Almeida 1979: 200; Maccari 2017: 234). Questa interpretazione deriva a sua volta dalla supposta esistenza di uno ius proferendi pomerii che avrebbe previsto la conquista di un territorio come condizione necessaria ad un ampliamento pomeriale.

Considerando quanto detto finora, si potrebbe pensare al contrario che Claudio volesse dare maggiore lustro alla sua conquista (a dire il vero, ben meno eroica rispetto all’opera di altri princeps, dato che l’imperatore giunse in Britannia solamente a raccogliere la vittoria ormai certa), collegando questo “confine” allargato al confine della cittadinanza esteso con la concessione ai primores galli e al confine dell’urbs ampliato con il pomerio, sintetizzati nella formula auctis populi Romani finibus. Questa collegamento è rafforzato dall’iscrizione posta sullo stesso Arco di Claudio: reges Brit[annorum] XI d[iebus paucis sine]/ ulla iactur[a deviceret et regna eorum]/ gentesque b[arbaras trans Oceanum sitas]/ prìmus in dici[onem populi Romani redegerit] (CIL, VI 920 =EDR092880, rr. 6-9). Redigere in dicionem populi Romani può voler dire “ridurre sotto l’autorità del popolo Romano”, ma anche “ridurre sotto la giurisdizione del popolo Romano”, ha quindi una valenza non solamente di conquista, ma anche giuridica. Il richiamo al populus Romanus inoltre ricorre sia nell’iscrizione dei cippi pomeriali che nell’iscrizione dell’Arco. Allo stesso tempo, gentesque barbaras trans Oceanum sitas ci dà l’idea del confine dell’impero romano spostato oltre il canale della Manica.

Questa operazione ideologica fu possibile perché il pomerio aveva perso la sua valenza originaria, e rappresentava ormai solamente un elemento della tradizione storico-religiosa della città. Collegandosi al modello di Servio Tullio, figura con la quale l’imperatore si era confrontato durante i suoi studi eruditi, Claudio riproponeva il collegamento tra pomerio e cittadinanza, aggiungendovi il contesto dell’impero e dei suoi confini e innalzando il confine dell’urbs a luogo di rappresentazione del potere imperiale. Il collegamento tra ampliamento del pomerio e conquista territoriale, a questo punto, ci sembra un’invenzione di Claudio, che non ha però un carattere legittimante, come ipotizzato finora dalla ricerca, quanto invece ideologico, per dare un’importanza trascendente a entrambe le azioni, le quali dovevano rispecchiarsi l’una nell’altra. 

In merito alle discordanze presenti nelle fonti, possiamo cercare di dare una spiegazione alla luce dell’interpretazione data all’intervento di Claudio. Il passaggio da legame ideologico tra i vari confini del popolo Romano a legame vincolante può essere avvenuto sia attraverso un’interpretazione letterale del testo di Seneca, che contrapponeva il territorio italico conquistato da Silla a quello provinciale di Claudio, suggerendo che vi fosse un principio legittimante per l’ampliamento del pomerio da parte di entrambi, sia da un confronto con l’iscrizione polivalente di Claudio e il collegamento con l’Arco che celebrava le conquiste in Britannia.

La fonte successiva a Seneca, Tacito, cita l’ampliamento di Silla e di Claudio, introducendo quello di Augusto, probabilmente perché gli sembrava logico che anche il primo princeps potesse avere avuto il diritto di ampliare il pomerio more prisco, quo iis, qui protulere imperium, etiam terminos urbis propagare datur (Tac. ann. XII, 23). Effettivamente, Augusto aveva ampliato il territorio dell’impero e aveva anche promosso la prima riforma delle regioni cittadine dopo Servio Tullio, all’interno della quale sarebbe potuto avvenire anche l’ampliamento del pomerio. Un’idea simile doveva sottostare all’attribuzione di un ampliamento a Cesare da parte di Aulo Gellio e Cassio Dione. Il divus Iulius fu fautore di conquiste territoriali e di un progetto per deviare il corso del Tevere ampliando il territorio del Campo Marzio, la cosiddetta lex de urbe augenda, promossa nel 45 a.C. ma rimasta irrealizzata dopo la morte di Cesare nel 44 a.C. (Cic. ad. Att. XIII, 20, 1; cfr. Lyasse 2005: 179; Annibaletto 2010: 84; Simonelli 2010: 155).

Il fatto però che Tacito e le fonti successive non citino all'unanimità Cesare e Augusto come iniziatori di un ampliamento, giustifica l’idea che si tratti di ampliamenti ipotetici, ritenuti probabili alla luce dell’interpretazione di Seneca e dell’iscrizione di Claudio. D’altra parte, è improbabile che almeno Tacito non fosse a conoscenza dell’avvenuto ampliamento dei Flavi, che fino all’opera di restauro promossa da Adriano doveva risultare visibile attraverso i cippi pomeriali. L’intervento dei Flavi non doveva rifarsi a nessun mos apud antiquos che prevedesse un territorio conquistato a legittimare l’azione, altrimenti, perché Tacito non avrebbe dovuto citarlo? 

Gli ipotetici ampliamenti di Cesare e Augusto postulati da Tacito e da Aulio Gellio, ipotesi sicuramente non fuorvianti visti gli interventi urbanistici attribuiti a entrambi, furono poi ripresi da Cassio Dione. 

Infine, l’autore dell’ Historia Augusta nel IV secolo d.C. volle aggiungere alla lista degli ampliamenti Traiano, che portò l’impero alla sua massima espansione territoriale (Maccari 2017: 221), Nerone, probabilmente confuso con lo stesso Claudio, e Aureliano, ristabilendo quell’antico legame tra mura e pomerio, che secondo lui doveva riproporsi con la costruzione delle nuove mura cittadine.

 

IL POMERIO DEI FLAVI: UNA NUOVA FUNZIONE?

L’analisi del secondo ampliamento attestato dalle fonti epigrafiche, quello di Vespasiano e Tito nel 75 a.C., può confermare alcune delle conclusioni tratte riguardo all’intervento di Claudio e allo ius proferendi pomerii. Come accennato, l’azione dei Flavi è testimoniata da due iscrizioni: quella sui cippi pomeriali, che riprende in maniera esatta la formula claudiana (auctis p(opuli) R(omani) finib(us)/ pomerum ampliaverunt/ terminaveruntq(ue)) e la lex de imperio Vespasiani. Quest’ultima consiste in un elenco di privilegi spettanti all’imperatore Vespasiano, seguiti dalla formula standard ita uti licuit a introdurre i nomi dei precedenti imperatori che erano stati detentori dello stesso privilegio (con l’eccezione di Caligola e Nerone, colpiti da damnatio memoriae). Tradizionalmente, la lex viene datata al 69 d.C., l’anno dei quattro imperatori che si concluse con la presa di potere da parte di Vespasiano, il quale avrebbe voluto la stesura del testo giuridico per dare una legittimazione al proprio incarico (Buongiorno 2012: 521).

A questo proposito, come ha osservato Coarelli, appare peculiare l’inclusione del diritto di ampliare il pomerio con riferimento all’intervento di Claudio, poiché comporterebbe che Vespasiano avesse già in mente nel 69 d.C. l’ampliamento effettuato solamente sei anni dopo. Per questo motivo, Coarelli ha proposto di mettere in discussione la datazione della lex (2009: 229). In realtà, si potrebbe pensare a una lex precedente, risalente forse al 69 d.C., di cui sarebbe avvenuta la stesura definitiva dopo il 75 d.C., ovvero ad ampliamento avvenuto, incluso così nell’elenco dei privilegi dell’imperatore. In questo modo, si spiegherebbe anche la condizione che gli fu posta, ovvero di essere nell’“interesse dello Stato” (cum ex re publica censebit esse).

Se risulta difficile definire in questo senso l’ampliamento di Claudio, sempre Coarelli ha proposto un’interessante interpretazione in termini simili dell’ampliamento flavio. Facendo riferimento a un testo di Plinio (Plin. nat. III, 66-67) che cita per il 73 d.C., anno della censura di Vespasiano e Tito, delle “mura” (moenia) lunghe 13.200 passi (l’equivalente di circa 19,5 km), di certo non corrispondenti alle mura repubblicane, lunghe circa 11 km, Coarelli ha pensato di identificare in questa misura il pomerio flavio. Quest’ultimo avrebbe circondato un territorio pari a quello successivamente cinto dalle Mura Aureliane (circa 19 km), e potrebbe avere avuto la valenza di un confine per i dazi, posto logicamente al limite dei cosiddetti continentia tecta, ovvero degli edifici ancora appartenenti al territorio cittadino (Coarelli 1997: 90-92). Per quanto riguarda i cippi pomeriali, i Flavi avrebbero potuto mantenere la formula auctis populi Romani finibus, intendendo in questo caso i confini della città di Roma. 

Si era dunque persa definitivamente la concezione del pomerio come confine religioso? È interessante notare che l’iscrizione del pomerio restaurato da Adriano si discosti dalla formula dei due ampliamenti precedenti, nonostante l’azione di restauro lasci pensare che il confine dovette mantenere la stessa funzione di quello flavio. Trovandosi l’imperatore lontano da Roma (l’iscrizione è datata al 121 d.C., anno di inizio del primo lungo viaggio di Adriano nelle province dell’Impero), al suo posto fu incaricato del restauro il collegio degli auguri, come in ricordo dell’antica connessione che questi avevano con il pomerio. In questo caso, si trattava però di un richiamo consapevole a un passato ormai lontano.

 

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Lo studio del pomerio e della sua storia, legata in maniera indissolubile a quella della città di Roma, al mutamento delle sue condizioni politiche e dei suoi spazi, molto ci può dire riguardo al rapporto che i Romani coltivavano con le proprie tradizioni. Se da una parte le fonti ci continuano a parlare del pomerio delle origini, anche laddove si inserisce il motivo degli ampliamenti avvenuti molto più tardi, si è visto come ricostruendo la storia del confine sia inevitabile considerare un’evoluzione nel suo significato. Di questo cambiamento tuttavia non vi è una traccia evidente nel racconto degli autori antichi, che anzi tacciono riguardo a due interventi sicuramente avvenuti, ovvero l’ampliamento del pomerio da parte dei Flavi e il restauro di Adriano. 

Il motivo di questo silenzio è forse da ritrovare proprio in questa condizione mutata del confine. Il pomerio flavio, se realmente investito della funzione di confine dei dazi, non è lo stesso pomerio di Romolo e di Servio Tullio, un confine rimasto inviolato e intoccabile per secoli, quando costituiva il limite più sacro della città. Gli autori che si interessano di questo pomerio tradizionale, non considerano neanche il paragone con quello contemporaneo, che evidentemente aveva perso la sua valenza religiosa. Di fatto, il pomerio “moderno” che interessa gli autori (mettendo da parte l’Historia Augusta) è quello di Claudio, che richiamandosi probabilmente a modelli antichi, suscitò un rinnovato interesse per quelle che dovevano essere le tradizioni legate al confine. Quest’ultimo scontava il fatto di essere per la sua morfologia un confine “mobile”, essendo più semplice spostare dei cippi piuttosto che costruire una nuova cinta muraria.

Una fonte un po’ fuori dal coro, Tito Livio, presenta d’altra parte ancora delle difficoltà interpretative e potrebbe costituire la chiave per capire di più del pomerio nel passaggio tra Repubblica e Principato. Il fatto che Livio come unico autore si riferisca al pomerio come a una striscia di terreno che si estende da entrambe le parti delle mura, è stato da alcuni interpretato come la prova dell’avvenuto smarrimento della cognizione del pomerio, ormai un “relitto” della tradizione di cui non si ricordava neanche più la forma (Giardina 1995: 124; Annibaletto 2010: 110-111). Si tratta forse di un giudizio un po’ affrettato, considerata la formazione dello storico di età augustea, il quale sarebbe quindi isolato dal patrimonio di notizie a disposizione degli altri autori, tutti a conoscenza della forma lineare del pomerio. Potrebbe essere invece che ancora ci sfugga un nesso tra il racconto del pomerio di Servio Tullio, ampliato in seguito a una riforma della cittadinanza, una motivazione non troppo lontana dal contesto degli interventi di Claudio e dei Flavi, e la situazione contemporanea a Tito Livio. 

Sembrerebbe comunque necessario spostare l’attenzione da un eventuale regolamento posto a monte degli ampliamenti, chiedendoci piuttosto quale fosse il loro scopo. Nessun confine, per quanto sacro, poteva trarre la sua valenza dalla sua sola condizione religiosa, senza che questa comportasse effettivamente una conseguenza per le persone che si trovavano a varcarlo. Questo discorso valeva per il pomerio repubblicano, che poneva un limite all’imperium, e una volta cambiate le condizioni politiche, doveva valere anche per il confine imperiale. Il continuo richiamo alle tradizioni era sicuramente una caratteristica peculiare della cultura romana, ma non per questo deve far distogliere lo sguardo da una realtà cittadina in continuo mutamento.

 

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